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Siena de Compostela: matamoros, il gallo e la gallina

Che cosa lega Siena e la sua terra con Santiago de Compostela?

di Augusto Codogno

SIENA. Che cosa lega Siena e la sua terra con Santiago de Compostela? Tante, troppe cose. E non solo per quanto riguarda la nostra città, ma anche il suo territorio.

Il culto “jacopeo” si diffuse in tutta Europa alla fine del dodicesimo secolo ed anche Siena ne fu fortemente influenzata. Un grande impulso ovviamente fu dato dalla “via francigena” detta in precedenza “via Romea”, che svolse un notevole ruolo nella diffusione del sapere religioso e culturale. Dalla nostra città passavano i flussi di pellegrini che si recavano a sud verso Roma (romei) ed anche quelli che proseguivano per l’Italia meridionale (palmieri), pronti alla traversata marittima verso la terra santa e Gerusalemme. Ma Siena intercettava era anche il transito di coloro che dal sud della nostra penisola e da Roma si recavano alla tomba di San Giacomo Maggiore (Santjago appunto) a Compostela.

Per fare un esempio di quanto affermato basterà riportare il contenuto di una pergamena del 1240 contenuta nel fondo del nostro Ospedale di Santa Maria della Scala oggi in Archivio di Stato (3 agosto 1240, Ind. 13. D. 0,18 – 0,12 ½.) nella quale tale “Uberto, speziale del fu Viviano, fa testamento e lascia alcuni legati a spedali, monasteri e chiese, a Castellana sua moglie, al fratello Pietro e ad un uomo che fosse andato per lui alla casa del beato Giacomo da Gallizia”.

Ma vorrei citare anche un altro documento, meno conosciuto, proveniente dalla nostra Biblioteca Comunale degli intronati (BCI, Pergamene fascio XXX, n. 292, 30 luglio 1383) nel quale tale “Giovanni di Ghino Guidi di Siena, scrive di suo pugno in volgare nel testamento che, oltre a diversi legati e lasciti, quando sarà morto vuole che a spese della sua eredità si mandi una persona in pellegrinaggio a San Giacomo di Galizia”.

Agli inizi del XIV secolo, i pellegrinaggi in Galizia cominciarono a diventare un fenomeno di massa, sia perché Gerusalemme era ormai difficilmente raggiungibile e tornata sotto il dominio musulmano, sia perché la chiesa romana ed i suoi papi avevano intrapreso una forte “sponsorizzazione” del culto jacopeo, paragonabile alle più moderne campagne di marketing.

Un ruolo fondamentale per la diffusione di questo culto lo svolse la divulgazione del cosiddetto “Codex Calixtinus”, conosciuto anche con il nome di Liber Sancti Jacobi (“Libro di San Giacomo”) e falsamente attribuito a Papa Callisto II (1060 circa – 1124).

Il Liber è un insieme di testi (5 libri e un’appendice), indicati come risalenti al XII secolo, ma la cui redazione va collocata tra il 1139 e il 1173.

Esso è in pratica la sintesi del corpus dottrinario, ideologico e liturgico su cui si fondò il culto dell’apostolo. Un culto assai importante e di forte rilevanza politica, considerando che il corpo dell’apostolo Giacomo era l’unico a non essere deposto a Roma, e che per questo Compostela era stata promossa nel 1121 a sede arcivescovile.

Il Santo tra l’altro ebbe poi l’ulteriore compito mediatico nella guerra per la “reconquista” da parte dei cristiani di quella parte della penisola iberica caduta sotto la scure musulmana. Fu allora che ebbe l’appellativo di “Santiago matamoros” (ammazza mori=infedeli), anche se la leggendaria vicenda risalirebbe alla battaglia di Clavijo che si sarebbe svolta nel lontanissimo 844.

Secondo tale credenza, durante lo scontro armato tra i cristiani (guidati da Ramiro I re delle Asturie) e i musulmani, San Giacomo Maggiore sarebbe apparso su di un cavallo bianco ed avrebbe partecipato alla battaglia contro gli infedeli facendo vincere i primi.

A partire dal XV secolo l’iconografia che rappresenta questo evento si moltiplica esponenzialmente ed anche a Siena, nella chiesa di Santo Spirito, ne abbiamo un chiaro esempio.

Si tratta di un affresco che si trova nella cosiddetta “Cappella degli Spagnoli”, la prima a destra entrando, e fu realizzato nel 1530 dal Sodoma (Giovanni Antonio Bazzi).

Siamo nella contrada del Nicchio, luogo dove i legami tra Siena e Santiago di Compostela assumono dei connotati precisi, quasi ai limiti della leggenda. E non solo nella chiesa di Santo Spirito, dove è presente, oltre all’affresco di cui sopra, anche una statuetta lignea di San Giacomo con cappello e bastone da pellegrino. Cappello sul quale naturalmente sfoggia la famosa “conchiglia”, simbolo del pellegrinaggio jacopeo per antonomasia e che divenne anche il simbolo della contrada.

E non è difficile capire il perché. Questa parte di Siena, veniva identificata già nel XIII come quella del “popolo si San Giacomo o della Badia Nuova”, qui era l’abbazia dei Santi Giacomo e Filippo e a breve distanza era l’ospedale di San Giacomo.

Sempre qui la Chiesa di Santo Spirito con la cappella spagnola dedicata a San Giacomo ed a poca distanza la contrada che fu di “Samoreci” il cui nome rimanda etimologicamente e senza dubbio ai “mori”. Ancora qui la contrada del “Nicchio” adottò come suo vessillo la “pecten jacobaeus” che i pellegrini raccoglievano a Finisterre, località sull’Atlantico, proseguimento naturale per chi voleva vedere la cosiddetta “Fine del Mondo”, l’ultimo luogo del mondo cristiano. E sempre qui (esiste tutt’oggi) il famoso Vicolo di Finimondo, che poi è stessa cosa di “finisterre o fine terra”.

Ma non solo Siena racconta molto di Santiago di Compostela.

Il miracolo dell’impiccato a Cuna

Nel secondo dei cinque libri di Compostela che componevano il già citato Codex Calixtinus, quello titolato “De miraculis sancti Iacobi”, fece breccia tra le masse di fedeli, narrando i ventidue miracoli compiuti dall’apostolo Giacomo il Maggiore e sollecitando la devozione popolare.

Tra questi, se dovessimo stilare una classifica, quello più famoso è il “miracolo dell’impiccato”, conosciuto anche come il “miracolo del gallo e della gallina”, avvenuto, secondo alcune fonti, nella località di Santo Domingo de la Calzada. Esso trova un posto preminente nell’iconografia di molte chiese italiane (generalmente sotto forma di affresco) e viene rappresentato, pur con alcune varianti, nello stesso modo.

La storia è la seguente: verso l’anno mille, padre, madre e figlio partirono in pellegrinaggio dalla Germania per recarsi a Santiago de Compostela. Si fermarono a dormire in una locanda e la figlia dell’oste si invaghì del giovane che però, rifiutò le avances della bella fanciulla. La giovane indispettita nascose una “coppa” d’argento nella borsa del giovane e al mattino seguente fece intervenire le guardie che, trovando la refurtiva, condannarono a morte il malcapitato e subito lo impiccarono. Padre e madre continuarono il loro viaggio a Compostela e dopo trentasei giorni tornarono per dare sepoltura al figlio che miracolosamente era ancora vivo. Fu lui stesso a dirgli che San Giacomo gli teneva sollevati i piedi in modo che la corda non stringesse. I genitori si recarono immediatamente dal giudice a raccontare il miracolo e chiedere che venisse staccato dalla forca, ma il notabile, che stava cenando con una gallina ed un pollo arrosto rispose che erano dei bugiardi ed aggiunse: “vostro figlio è vivo come lo sono queste bestie arrosto!”. Fu a quel punto che il gallo e la gallina che erano nel vassoio si ricoprirono di piume e volarono via.

Ci sono alcune varianti del miracolo come ad esempio quella che racconta di due soli pellegrini (padre e figlio) e che fu l’oste a mettere la brocca nella sacca del giovane. Secondo questa versione, dopo il volo del gallo e della gallina l’oste fu impiccato al posto del ragazzo.

Sembra che nell’immaginario collettivo, questo racconto fosse nel XV secolo talmente conosciuto e diffuso che lo troviamo dipinto in molte chiese dedicate a San Giacomo. In Italia ad esempio, il miracolo dell’impiccato viene rappresentato spesso in due o più scene, in predelle sotto l’immagine del santo o, meno spesso, in un unico affresco.

Nella chiesa di Cuna (Monteroni d’Arbia – Siena) ad esempio, titolata ai santi Giacomo e Cristoforo, abbiamo un affresco di San Giacomo sotto al quale il miracolo è dipinto in due predelle (Figura). Nei particolari di San Giacomo possiamo notare il classico bastone del pellegrino (bordone), la scarsella con il simbolo della “conchiglia” ed il cappello tipico.

Il pittore di tale opera fu Pietro di Ruffolo e siamo intorno agli anni venti del 1400. Allo stesso artista sono attribuiti alcuni dipinti nell’Eremo di S. Salvatore a Lecceto (Sovicille), un San Sebastiano nel Museo Corboli di Asciano e alcuni affreschi nella chiesa di Tocchi (Monticiano).

La committenza fu senza dubbio dell’Ospedale Santa Maria della Scala di Siena che, agli inizi del trecento, aveva acquisito sia la chiesa che quasi tutto il borgo di Cuna e nel 1314 aveva iniziato a costruire la Grancia e a restaurare lo stesso edificio di culto.

La via Francigena dunque era a tutti gli effetti una strada per Santiago de Compostela dove si andava, si tornava e si raccontava.

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