Passaggio di consegne tra i due rettori Pietro Cataldi e Tomaso Montanari

di Letizia Pini
SIENA. Un breve incontro con la Stampa prima e poi l’inaugurazione dell’Anno Accademico con il passaggio di consegne tra i due Magnifici Rettori: Pietro Cataldi e Tomaso Montanari.
Una giornata di festa, attesa e trepidante. Molti gli ospiti nel rispetto delle vigenti regole anti-contagio, e un po’ di sana umana emozione. Non solo dei due Rettori, ma anche per la musica e l’orchestra che ha allietato e avvolto di atmosfera la cerimonia. Con i gonfaloni di Regione Toscana, Provincia di Siena, Comune di Siena e del Magistrato delle Contrade.
Pietro Cataldi: ”Lascio un’università sana che riesce ad essere profondamente radicata in città. Ben integrata grazie a incontri scambi accordi in un prestigio incrociato tra le istituzioni e contemporaneamente aperta al mondo con un numero sempre maggiore di lauree doppio titolo, scambio tra studenti e professionisti. Tomaso Montanari che diventa Rettore oggi è una figura di prestigio culturale internazionale che sarà per Siena un enorme risorsa che Siena saprà utilizzare al meglio.
Tomaso Montanari: “E’ una giornata di festa, molto bella, di emozione. Uno si chiede se sarà all’altezza e io spero proprio di sì. Ce la metterò tutta. E’ una comunità bellissima, grazie al lavoro di Pietro Cataldi e di tutti i colleghi che l’hanno governata con vero spirito di servizio. Alla comunità dei docenti, non docenti e studenti”. E continua: “E’ un’università piccola ma esemplare per la sua democrazia e per la sua aderenza alla sua missione per l’università. E’ un luogo dove si diventa umani oltre che a imparare a fare molte cose. per la vita, affacciarsi al mondo del lavoro ma c’è anche un’attenzione forte alla persona umana. Quindi alla valorizzazione e difesa di tutte le differenze, di genere culturali, di lingua. Davvero è un’università che incarna quello che dovrebbe essere l’università sempre in Italia. Sono molto onorato di questa possibilità. Proverò a fare del mio meglio”.
Sollecitato sulla recente vicenda dell’articolo a sua firma sulle foibe, Montanari tiene a precisare: ”Nell’articolo ho detto che l’uso delle vittime delle Foibe, grande tragedia che si iscrive nella più grande tragedia complessiva della Seconda Guerra Mondiale del fascismo e del nazismo, sono state strumentalizzate negli ultimi anni dall’estrema destra. Era un discorso per le vittime delle foibe e contro l’uso politico di chi le celebra a braccio teso sulla svastica sul braccio. Credo che chi lavora con la storia debba partecipare al discorso pubblico sull’uso della storia. Quando ad usare la storia è la politica, si apre un problema e credo sia giusto un dibattito. Il dibattito è aperto. Ma oggi è un giorno di festa e la parola oggi è: collaborazione, collaborazione, collaborazione!!”.
I numeri che vengono lasciati in eredità a Montanari: “Gli studenti sono cresciuti in numero in questi anni. Oggi sono il triplo di 10 anni fa. Di più non ce la sia fa. Anche i docenti e i ricercatori sono quei raddoppiati negli ultimi 6 anni: da 40 a 75. Tutto l’Ateneo ha fatto davvero tanto e Montanari si è già impegnato a proseguire soprattutto nella linea della de-precarizzazione del lavoro universitario. Perché la precarietà del lavoro universitario in generale è un tema che dovrebbe unirci tutti perché non è accettabile che i giovani migliori di questo paese debbano lottare per avere un lavoro degno.”
Gli interventi dei due rettori
Pietro Cataldi: “Prefetto, autorità, colleghe e colleghi, personale, studenti e studentesse, giornalisti, ospiti, grazie di essere qui e di festeggiare con noi. Festeggiamo un limite, e anzi ne festeggiamo due: l’inizio di un nuovo anno accademico, inaugurandolo, e l’inizio di un nuovo mandato rettorale. Perché qualcosa inizi, lo sappiamo, qualcos’altro deve finire; e chiamiamo ‘limite’ non tanto ciò che separa le due cose quanto il nostro tentativo di dare un senso al loro succedersi. Abbiamo paura della fine perché vorremmo che le cose non finissero –la loro fine ci ricorda la nostra, e quella di tutto ciò che amiamo; e abbiamo paura delle cose che iniziano, perché ci chiedono il coraggio di camminare con passi nuovi, di essere di nuovo, ancora una volta, vivi.
Oggi siamo sul limite, e i riti che compongono il bifrontismo di questo momento guardano in due direzioni: hanno in una mano la falce della mietitura e nell’altra i semi per il nuovo raccolto.
L’anno che mietiamo oggi insieme, e che mettiamo nel granaio della memoria, è stato un anno impegnativo e difficile; come quello che lo ha preceduto. Ma ce l’abbiamo fatta. Non un giorno ha taciuto il movimento della ricerca, né lo slancio della didattica. Abbiamo lavorato tutte e tutti perché l’università non chiudesse mai, perché la nostra piccola comunità, pure scossa da tensioni, restasse coesa, e responsabilmente al suo posto. In tanti hanno dedicato porzioni decisive della loro vita perché questo fosse possibile, e tuttavia qui mi piace ricordarli tutti nel Direttore del Dipartimento Massimo Palermo, il cui mandato si conclude insieme al mio, in una coincidenza cronologica che sembra mimare l’armonia della nostra dialettica di colleghi e di amici, pari sempre nella condivisione delle scelte. La passione controllata e mai appariscente che Massimo ha dedicato alla struttura strategica del Dipartimento ha dato risultati che vanno al di là del riconoscimento, pure importante, dell’eccellenza, e del relativo, cospicuo finanziamento; e resta un’eredità preziosa nelle mani di un collega e amico che ha tutti i numeri per raccoglierla nel modo migliore, e cui vanno oggi i nostri auguri più affettuosi, Giuseppe Marrani.
L’anno che si apre –gli anni universitari fanno lo stesso calcolo dell’infanzia e dell’adolescenza, e iniziano non dal 1° gennaio ma dal primo giorno di scuola–, l’anno che si apre sarà come quelli che il leopardiano venditore di calendari promette al passeggero: sarà migliore di quelli passati e ci tratterà meglio tutti. Chi creda ridicolo il rinnovarsi di questa certezza ha completato quel processo di professionalizzazione della vita da cui cerchiamo di proteggere le parti migliori di noi: lo spazio del nuovo, del non ancora tentato; lo spazio utopico di vite e popoli in armonia fra loro e con lo spazio naturale. Una vita non mimetizzata nel senso comune, nei pregiudizi e negli stereotipi; una vita pensata come una costruzione sempre da continuare.
A questo futuro mi piace oggi augurare solo una cosa: da parte di chi insegna, persuaderci e persuadere che la conoscenza vada praticata e nutrita senza accontentarci di semplificazioni spesso manipolate; e da parte di chi apprende, educarsi alla fatica del pensiero, cercando nutrimento nella complessità che sta al di là dei canali di informazione dominanti. Anche per questo studiare è oggi davvero, più che in qualsiasi altro tempo storico, un equivalente, e una condizione necessaria, della libertà.
Si stanno concludendo le celebrazioni per il settimo centenario della morte di Dante. Lo abbiamo visto dilagare in ogni modo; lo abbiamo visto trionfare, trasformato in un brand di successo. Rischiamo dunque di dimenticare che Dante è stato un perdente, uno spaventoso sconfitto. Ha scritto la Commedia costretto a trascinarsi in un’Italia nella quale i suoi diritti civili erano sostanzialmente nulli, con una condanna a morte sul capo nella sua Firenze: l’esule senza colpa, l’exul immeritus che ammiriamo a tanta distanza era come un immigrato senza documenti, come un clandestino in pericolo. E tutto ciò in cui credeva veniva travolto dalla sconfitta, e di più lo sarebbe stato negli anni, nei secoli a venire. Non uno stato universale che mettesse in pace la grande comunità umana ma stati armati e ostili; non la giustizia sociale e l’armonia civile ma oppressione e sfruttamento. Avrebbe vinto, anzi trionfato, fino a oggi, il “maladetto fiore”, il fiorino maledetto, battuto in oro e divenuto valuta di riferimento nei cambi, come oggi il dollaro o l’euro. Pecore e agnelli si sarebbero disviati più che mai, e i pastori sarebbero stati più spesso lupi di quanto Dante potesse immaginare. Ci dobbiamo chiedere allora che cosa sia il suo successo oggi, e perché lo ammiriamo. Se fosse solo per ragioni estetiche, per una bellezza fine a se stessa, e tutta quanta separata dagli oggetti che la compongono, allora, non saprei immaginare un tradimento più grande di quella bellezza; non saprei immaginare un modo peggiore per essere degni di quella eredità. In realtà credo che nella Commedia ci coinvolga soprattutto la fiducia nella trasformazione, l’entusiasmo appassionato che congiunge il disincanto del presente e la fede nel cambiamento. Sconfitto, Dante parla da vincitore, come se il suo sguardo bucasse la storia tragica già compiuta e da compiere, e andasse oltre, interpretando nel modo più radicale la ragione profonda che agita il movimento delle persone e dei popoli nel tempo: la ricerca della trasformazione, di una trasformazione che renda liberi; la ricerca di una libertà che non può essere separata dalla giustizia, nelle relazioni fra umani e in quelle fra popoli. Come si legge nella nostra Carta costituzionale, nata dal sangue della Liberazione partigiana.
Fra poco ascolteremo Cecilia Strada tenere per noi, per la nostra piccola comunità e i nostri ospiti, la prima lezione dell’anno. La sua presenza qui testimonia concretamente la fiducia in questa trasformazione e il nostro bisogno di non cedere al disincanto. Il progetto di vita di Cecilia, lo sappiamo, si è rivolto a quelli che, come Dante, non hanno più casa, né patria, che hanno alle spalle ponti bruciati e mancano di altra legittimazione che non sia quella della condizione umana. E non sembri retorico ricordare che nella prima similitudine della Commedia Dante si paragona a un naufrago che rischia di affogare. Come il suo salvataggio è la condizione perché il viaggio del poema sacro abbia inizio, così i salvataggi che la nave Resq compie oggi nel Mediterraneo sono la condizione perché noi si resti degni di celebrare questo centenario dantesco, e degni di credere ancora che il nostro destino non sia solo l’Inferno che ben abbiamo conosciuto e che vediamo dilagare intorno a noi. Accogliendo oggi qui Cecilia, ascoltando le sue parole, noi proviamo a fare posto a questo progetto, proviamo a sentire che la bellezza di Dante non è solo un lusso di privilegiati ma anche una persistente responsabilità verso noi stessi e verso i sommersi; sentiamo ancora che la parola ‘responsabilità’ è la parola chiave del nostro destino.
Il limite che separa due anni accademici è oggi anche quello che separa due mandati rettorali. È l’avamposto periclitante dal quale vi saluto come rettore che oggi conclude i sei anni del suo mandato, ed è i blocchi su cui il collega e amico Tomaso Montanari, al quale fra pochi minuti passerò la parola, attende il segnale dello starter, per scattare fra poche ore nel suo giro di pista.
È un limite emozionante anche perché non riguarda solo due destini individuali, e gli organi di governo che insieme alla figura del rettore si rinnoveranno; ma coinvolge l’intera nostra comunità, della quale, per scelta collettiva e condivisa, democraticamente suggellata dal voto, tutte e tutti siamo responsabili e soggetti.
Sarebbe lungo il lamento sulle cose che rimpiango di non esser riuscito a compiere, fra le molte pensate e volute; e più lunga sarebbe la confessione della pena per non averle sapute far vivere. Come usa, me ne chiamo unico responsabile; così come invece alla quotidiana condivisione di tutti i colleghi e le colleghe dell’ateneo –docenti, ricercatori e ricercatrici, personale TA e cel, studenti e studentesse, personale addetto alla vigilanza e alle pulizie– so di dovere la realizzazione di ciò che di buono riempie oggi i nostri granai. E mi riferisco innanzitutto alla crescita perfino stupefacente del corpo docente e ricercatore, passato in questi sei anni da circa 40 a quasi 75 unità, sfiorando il raddoppio, con un risultato unico nel sistema universitario italiano e in vistosa positiva controtendenza. Mi riferisco al gran numero di assunzioni di PTA avvenute, deliberate o previste nel nuovo fabbisogno approvato pochi giorni fa: quasi 30 unità di personale, che compenseranno, una volta a regime, i molti pensionamenti, e daranno un saldo ampiamente positivo, che potrà, concludendosi alcuni concorsi ancora in svolgimento, migliorare ancora. E mi riferisco al reclutamento di così tanti CEL di lingua straniera a TI –passati da quattro a circa 25 – da non rendere ragionevole una valutazione percentuale dell’incremento, ma da imporre, questo sì, un segno di convinta gratitudine per lo zelo generoso con cui Beatrice Garzelli ha garantito il funzionamento del Centro che si occupa dell’insegnamento delle lingue straniere, passate in questi anni da otto a undici. Ma l’effetto più gratificante di questi risultati è la conseguente riduzione delle sacche di precariato, che costituiscono una delle cose più inaccettabili del sistema universitario. E l’impegno programmatico di Tomaso Montanari su questo punto, in particolare, rappresenta un segno della civiltà che caratterizza il nostro Ateneo, oltre che uno dei tratti di intesa profonda fra noi.
La sostenibilità di questa crescita si lega a un incremento del FFO, finalmente di nuovo in movimento dopo anni di faticosa stasi (e se non siamo indietreggiati, come gran parte degli atenei, si è dovuto alla capacità di guadagnare sempre il massimo nei margini della premialità): dagli 8-9 milioni complessivi siamo finalmente collocati oltre i 10. E tuttavia inadeguato resta per noi il finanziamento pubblico, misurato ancora sugli anni in cui avevamo un quarto degli studenti di oggi, e soprattutto sempre più schiacciata appare la quota libera del finanziamento, che è la quota in cui può davvero esercitarsi l’autonomia universitaria. E mi piace ricordare qui pubblicamente che la tenuta del nostro bilancio, in saldo equilibrio anche nell’assestamento approvato pochi giorni fa, si deve anche alla devozione umana e alla competenza professionale che Carla Bagna dedica al Centro linguistico e Sabrina Machetti al Centro di certificazione, due polmoni anche finanziari, e naturalmente identitari, del nostro Ateneo.
Fa parte del grano buono che abbiamo saputo stipare insieme in questi sei anni anche il profondo rinnovamento degli spazi: l’acquisizione del grande e prestigioso palazzo “Il Prato” di Piazza Amendola che oggi ospita gran parte degli uffici amministrativi; la ricostruzione delle facciate della sede didattica di Piazza Rosselli, e la creazione al suo interno di nuovi importanti spazi didattici e di studio; la ristrutturazione radicale, quanto agli impianti, della sede di Via Pispini e l’avvio dei lavori di rinnovamento in quella di Via Bandini.
Il grano che oggi ha riempito i granai, in ognuno di questi ambiti, e in molti altri che per brevità non nomino qui, ha richiesto all’amministrazione un impegno spesso al di là dei termini professionalmente dovuti, e la gratitudine che qui esprimo ai capiarea Annamaria Beligni, Maurizio Ferretta, Giusi Grassiccia è da intendersi rivolta all’intero personale tecnico-amministrativo dell’Ateneo. Così come un valore collettivo vi chiedo di attribuire al ringraziamento che rivolgo al Presidente del Collegio dei Revisori dei conti Massimo Chirieleison e alla Presidente del Nucleo di Valutazione Emanuela Stefani.
Non me ne vorrete se mi permetto di dilungarmi ancora un attimo per dire che il Direttore e le Direttrici generali che hanno accompagnato il mio viaggio hanno avuto una funzione che va al di là di quanto può comprendere un pubblico ringraziamento: Cristiana Alfonsi, che mi ha aiutato nei primi mesi con amicizia a entrare in uno spazio che mai avrei creduto destinato alla mia vita; Andrea Erri, con il quale l’intesa si è accesa subito e resiste ben oltre l’anno di fuoco della sua presenza qui, nel nome di un comune sentire le vite degli altri, e della responsabilità di ogni scelta (e non scelta) di fronte a quelle; Annamaria Beligni, umile e affidabile come facente funzione, per alcuni mesi, in un passaggio difficile fra 2016 e 2017, così seria, anzi, da aver fatto preoccupare tutti noi, abituati alla sua allegria incontenibile; Silvia Tonveronachi, che dal febbraio 2017 ha regalato a questo Ateneo non solo una dedizione e una capacità di lavoro sulla quale non smettono di sorgere aneddoti e leggende, e una competenza costruita sull’umile fiducia nella parola scritta e sul rispetto delle norme; ma più ancora il pedale dell’etica che tiene insieme tutto il resto e gli dà senso: non con il ghigno ipocrita dei moralisti ma con il sorriso e più spesso con la risata franca delle anime veramente belle.
È d’altra parte vero che non avrei potuto fare il rettore, semplicemente, senza il sostegno professionale e umano della segreteria migliore del mondo; senza Laura Bambagioni, Francesca Bianchi, Monica Donnini, Rossella Pirozzi. Perché più di chiunque altro queste persone sapevano che non ero veramente il rettore ma fecevo solo finta, come l’Enrico IV di Pirandello, e non mi hanno tradito.
Né mi ha tradito la collega Marina Benedetti, la nostra Decana, colei che avrebbe, rivelando la commedia, assunto il potere al mio posto; e che ringrazio, ancora, per ringraziare in lei le colleghe e i colleghi tutti di Unistrasi.
Ho infine in questi anni avuto l’onore di avere al mio fianco, nel ruolo di Prorettore vicario, Mauro Moretti, che vede le cose per primo e ne conosce le cause, e che con la sua umiltà mi ha regalato l’ossimoro di avere come vice un mio maestro. La sua solidità umana ed etica sarà un segno importante di continuità, e Mauro, già scelto da Tomaso come suo Prorettore vicario, è oggi l’amico e il collega che meglio di chiunque altro rappresenta il passaggio del confine come tensione positiva verso il futuro.
E mentre passiamo insieme questo confine, vedo gli altri passaggi simili; vedo alle mie spalle il sorriso pensoso di Mauro Barni, il costruttore che più di ogni altro ha fatto per questa Istituzione, e cui spero si possa presto intitolare quest’aula, come già il Senato ha deliberato da alcuni anni, e vedo i rettori e la rettrice che mi hanno preceduto, Pietro Trifone, Massimo Vedovelli, Monica Barni; e mi emoziona far parte di questo movimento che tramanda, del gesto con cui il tempo aspetta e consuma. Non di meno mi emoziona avere qui accanto a me Tomaso Montanari, che questi anni mi hanno regalato come collega e subito come amico, e che la sua generosità umana mette oggi a disposizione della nostra comunità, per fare da Marta, come ci ha detto candidandosi, dopo aver fatto a lungo (e molto bene, dobbiamo aggiungere noi) da Maria. Il suo prestigio di studioso e il suo impegno etico e civile ne fanno un rettore ideale, e forse un rettore d’altri tempi: altri perché futuri, sia chiaro. Fra le cose che ci uniscono, credo che le più importanti siano oggi la concezione del potere come servizio, e un’idea della Stranieri come mirabile arco che unisce lo spazio definito di questa città tanto identitaria alle quinte sconfinate del mondo: le chiarine di Siena, che risuonano oggi forti e chiare nel nostro cuore, e l’orchestra di Piazza Vittorio, il suono del Palio e quello di culture e tradizioni diverse e lontane. Il nostro lavoro è tenerli insieme, così come un confine tiene insieme le cose che finiscono e quelle che iniziano; il nostro lavoro è la fatica e la felicità dell’attraversamento”.
Tomaso Montanari: “Autorità, colleghe e colleghi docenti e non docenti, studentesse e studenti, amiche e amici che oggi siete con noi, e caro Magnifico Rettore, caro professor Cataldi – caro Pietro.
La prima cosa che voglio dire prima di varcare la soglia che oggi mi porta a continuare il tuo lavoro; la prima cosa che voglio dire, parlando a nome della nostra collettività, è: grazie, Pietro!
Grazie per la misura, la grazia, l’equilibrio, la dedizione, la determinazione, e vorrei dire l’amore con cui ti sei preso cura di questa comunità, nella buona e nella cattiva sorte.
Grazie per la prosperità, la crescita, l’autorevolezza che hai saputo garantire alla Stranieri.
Grazie per la guida sicura nel buio della pandemia.
Grazie soprattutto per una cosa, che mi colpì fin dal primo momento che ci conoscemmo: grazie perché non ti sei mai vergognato della tua umanità. Ricordo che pensai che se un rettore di una università italiana era ancora visibilmente un essere umano, allora forse c’era qualche speranza.
Da allora ho imparato a conoscerti, e negli ultimi mesi sei stato per me non solo un mentore incredibilmente paziente e uno straordinario didatta, ma anche un amico vero. E, lo sai, da domani ti troverai ad avere ancora più pazienza. E questo grazie, pubblico e solenne, è anche per tutto quello che ancora ti chiederò.
Hai chiuso il tuo discorso ricordandoci che «il nostro lavoro è tenere insieme lo spazio definito di questa città tanto identitaria e le quinte sconfinate del mondo, il nostro lavoro – hai detto – è la fatica e la felicità dell’attraversamento».
Il nostro lavoro. Fermiamoci su queste due cose: noi, la nostra comunità accademica; e il lavoro che facciamo.
Il mio impegno per i prossimi sei anni è che continuiamo ad essere, e diventiamo ancor più, un noi. «Salvarsi da soli è avarizia, salvarsi insieme è politica», diceva don Lorenzo Milani (e lo ripeterà tra poco il ministro Roberto Speranza, che ringrazio per aver voluto essere, virtualmente, con noi): e la nostra politica è quella di pensare non come una somma di egoismi, ma come una comunità.
Ho provato a spiegare, nel programma di mandato, cosa questo vuol dire, in concreto e a partire dal ruolo del rettore.
Primo. Un governo plurale e paritario, di prorettrici e prorettori, delegate e delegati. Perché l’unico modo di far sì che il potere diventi servizio, non solo nella retorica, è suddividerlo, assumerlo insieme, renderlo largo, trasparente, responsabile.
Secondo. Una comunità di eguali fondata sulle diversità. Il che vuol dire: comportarsi ogni volta che sia possibile, e tendenzialmente sempre, come se esistesse un ruolo unico della docenza (e lottare perché esista presto), e abolire ogni odioso segno di gerarchia tra docenti, non docenti e studenti. Siamo persone: rimaniamo persone!
E vuol dire anche abbandonare, progressivamente e sostenibilmente, ogni forma di precarietà, cioè di sfruttamento. Tra i docenti, tra i non docenti, tra le persone che assicurano ogni giorno la pulizia e l’accessibilità degli edifici in cui si svolge la nostra vita.
E riconoscere, valorizzare, celebrare (in parole e opere) le diversità: quelle dell’orientamento sessuale e dell’identità di genere, quelle delle lingue e delle culture, quelle delle età e dei talenti. Perché «siamo differenti, inteso ‘differenza’ nel senso di diversità delle identità personali» e perché «siamo disuguali, inteso ‘disuguaglianza’ nel senso di diversità nelle condizioni di vita materiali». E l’eguaglianza – questo il punto centrale – si deve realizzare «a tutela delle differenze e in opposizione alle disuguaglianze».
Siamo una comunità dalla parte dei più deboli. Delle donne, di chi è o si sente diverso, di chi è povero culturalmente e materialmente, di chi è marginale e periferico. Siamo una comunità antifascista.
Ha un prezzo questo? Sì, lo ha.
Nelle scorse settimane, per aver espresso un punto di vista culturale, per aver ammonito sulle conseguenze della manipolazione politica della storia, per aver denunciato la strumentalizzazione politica delle vittime delle Foibe, ho dovuto subire un accanito linciaggio mediatico. E voi con me: e ve ne domando scusa.
Penso, tuttavia, che ne valga la pena. Nel programma di mandato mi sono impegnato a dedicare dodici aule ai soli dodici professori universitari che non giurarono fedeltà al fascismo, nel 1931: ho capito a mie spese quanto quell’idea fosse attuale. Se guardiamo a quella generazione, la resistenza che ci è richiesta, è ben poca cosa: non farla – per convenienza, viltà, malinteso amore di pace – sarebbe una vergogna imperdonabile.
Del resto, da storico dell’arte credo profondamente nella forza dei luoghi, nelle storie e nei destini che nei nomi dei luoghi sono iscritti.
Ebbene, la vita della nostra piccola università si muove tra due poli principali: “Rosselli” (questo plesso) e “Amendola” (il rettorato). Il nostro ‘noi’ è piantato nel cuore della toponomastica antifascista: quelle vite, quegli ideali, quelle voci ci accolgono e vegliano su di noi.
Carlo Rosselli, a cui è intitolato il piazzale che tutti abbiamo appena attraversato arrivando qua, è una figura altissima di professore, di intellettuale, di antifascista – di martire dell’antifascismo, ucciso insieme a suo fratello Nello in Francia nel 1937, per ordine di Mussolini.
Tra le tante pagine che, negli articoli di Carlo Rosselli, sembrano scritte per noi ce n’è una (del 1934) che spiega a fondo cosa significhi essere antifascisti oggi (nel 2021), e cosa significhi esserlo da umanisti, e in una università per Stranieri: «Siamo antifascisti non tanto e non solo perché siamo contro quel complesso di fenomeni che chiamiamo fascismo; ma perché siamo per qualche cosa che il fascismo nega ed offende, e violentemente impedisce di conseguire. Siamo antifascisti perché in questa epoca di feroce oppressione di classe e di oscuramento dei valori umani, ci ostiniamo a volere una società libera e giusta, una società umana che distrugga le divisioni di classe e di razza e metta la ricchezza, accentrata nelle mani di pochi, al servizio di tutti. Siamo antifascisti perché nell’uomo riconosciamo il valore supremo, la ragione e la misura di tutte le cose, e non tolleriamo che lo si umilii a strumento di Stati, di Chiese, di Sette, fosse pure allo scopo di farlo un giorno più ricco e felice. Siamo antifascisti perché la la nostra patria non si misura a frontiere e cannoni, ma coincide col nostro mondo morale e con la patria di tutti gli uomini liberi».
La nostra patria è il mondo, e la nostra piccola comunità si autodetermina declinando questi valori altissimi nella gioia e nella fatica del lavoro di ogni giorno.
Nel Senato accademico (che si riunirà, nella sua nuova composizione, già il prossimo 19), nel Consiglio di Amministrazione, nel Consiglio di Dipartimento decideremo insieme come attuare tutte queste cose, esposte in dettaglio nel Programma di mandato e nel discorso con cui, l’8 giugno scorso, ho chiesto la vostra fiducia.
Ma, in questo giorno fausto, abbiamo qua molti ospiti e amici, e dunque nei prossimi minuti non vorrei parlare ancora di noi, bensì del nostro lavoro, continuando a riflettere sulle ultime parole del discorso di Pietro.
Qual è, dunque, questo nostro lavoro?
È lo stesso della scuola: perché l’università, non mi stancherò di ripeterlo, è parte della scuola – è scuola. E quel lavoro è formare cittadini, e prima ancora persone: persone umane.
Tutta l’università esiste per formare umani, anche Legge o Ingegneria non sfornano solo avvocati o ingegneri, ma formano o non formano esseri umani. Noi, poi, come umanisti siamo capaci solo di fare quello: se non lo facciamo più, siamo come il sale quando perde il suo sapore.
Ma non possiamo farlo, questo lavoro, se non siamo umani noi stessi.
Un singolare paradosso – confessiamocelo. Se passiamo la vita a studiare humanities, e non riusciamo a diventare un poco umani, a cosa davvero abbiamo dedicato la vita?
Per questo non si può separare ricerca e didattica, studio e insegnamento, biblioteca e aula: perché se ci separiamo dalla sorgente, siamo fontane aride.
E per questo il governo dell’università, la sua organizzazione, non può mai diventare impersonale, spersonalizzata, astratta, burocratica. Non è un’azienda, non si ciba di numeri. Siamo una comunità di persone, in cui le persone vengono prima di ogni altra cosa. Siamo come l’orco della favola a cui Marc Bloch paragona lo storico: «Egli sa che là dove fiuta carne umana, là è la sua preda». Solo che non vogliamo mangiarla, la nostra preda: la vogliamo far vivere più intensamente. Più umanamente.
La prima cosa che dunque abita le nostre aule è il dubbio, il pensiero critico, la contestazione di ogni dogma, di ogni autorità – a partire dalla nostra. A partire da quella del rettore.
La nostra deve essere un’università ribollente di letture tendenziose. È il titolo delle «parole dette [da Franco Antonicelli] per l’inaugurazione della Biblioteca dei portuali di Livorno», il 15 ottobre del 1967. Già, perché gli scaricatori di porto avevano voluto una loro biblioteca: strumento di riscatto e di liberazione. E Antonicelli, questo intellettuale singolarissimo e libero, quel giorno memorabile consigliò loro ciò che oggi vorrei consigliare alle studentesse e agli studenti della Stranieri: «Cercate sempre i libri che vi tormentano, cioè che vi conducono avanti, i libri che vi gettano lo scrupolo di coscienza: questi sono i libri, i libri non di fede accertata, ma di fede incerta. Questi sono i libri che un cittadino, un portuale che diventa, che è, che vuol essere più cittadino deve leggere».
Dobbiamo costantemente ricordare che la nostra ispirazione è questa fede incerta, piena di dubbi. Consapevole che abbiamo scelto questa vita e questa via, non perché pensiamo di sapere molto. Al contrario, l’abbiamo scelta perché sappiamo di non sapere. Ha detto la poetessa polacca Wislawa Szymborska, nel discorso di accettazione del Premio Nobel, nel 1996: «ispirazione non è un privilegio esclusivo dei poeti o degli artisti in genere. C’è, c’è stato e sempre ci sarà un gruppo di individui visitati dall’ispirazione. Sono tutti quelli che coscientemente si scelgono un lavoro e lo svolgono con passione e fantasia. Ci sono medici siffatti, ci sono pedagoghi siffatti, ci sono giardinieri siffatti e ancora un centinaio di altre professioni. Il loro lavoro può costituire un’incessante avventura, se solo sanno scorgere in esso sfide sempre nuove. Malgrado le difficoltà e le sconfitte, la loro curiosità non viene meno. Da ogni nuovo problema risolto scaturisce per loro un profluvio di nuovi interrogativi. L’ispirazione, qualunque cosa sia, nasce da un
incessante “non so” … A questo punto possono sorgere dei dubbi in chi mi ascolta. Allora anche carnefici, dittatori, fanatici, demagoghi in lotta per il potere con l’aiuto di qualche slogan, purché gridato forte, amano il proprio lavoro e lo svolgono altresì con zelante inventiva.
D’accordo, loro “sanno”. Sanno, e ciò che sanno gli basta una volta per tutte. Non provano curiosità per nient’altro, perché ciò potrebbe indebolire la forza dei loro argomenti. E ogni sapere da cui non scaturiscono nuove domande, diventa in breve morto, perde la temperatura che favorisce la vita. Nei casi più estremi, come ben ci insegna la storia antica e contemporanea, può addirittura essere un pericolo mortale per la società.
Per questo apprezzo tanto due piccole paroline: “non so”. Piccole, ma alate. Parole che estendono la nostra vita in territori che si trovano in noi stessi e in territori in cui è sospesa la nostra minuta Terra. Se Isaak Newton non si fosse detto “non so”, le mele nel giardino sarebbero potute cadere davanti ai suoi occhi come grandine e lui, nel migliore dei casi, si sarebbe chinato a raccoglierle, mangiandole con gusto. Se la mia connazionale Maria Sklodowska Curie non si fosse detta “non so”, sarebbe sicuramente
diventata insegnante di chimica per un convitto di signorine di buona famiglia, e avrebbe trascorso la vita svolgendo questa attività, peraltro onesta. Ma si ripeteva “non so” e proprio queste parole la condussero, e per due volte, a Stoccolma, dove vengono insignite del premio Nobel le persone di animo inquieto ed eternamente alla ricerca».
È per proclamare questo «non so», è per questa fede incerta, vedete, che ho preferito non indossare la toga: e chiedo scusa se questo gesto può aver offeso qualcuno. Perché tra quei libri di fede incerta ne ho letti due (i Pensieri di Blaise Pascal e le Tre Ghinee di Virginia Woolf) che mettono in guardia dal rischio di trovare troppo certezze nelle vesti liturgiche dei poteri maschili. Il primo ha scritto che se «i magistrati possedessero la vera giustizia non saprebbero che farsene di quelle loro toghe rosse, dei loro ermellini, di cui s’ammantano come gatti villosi… se i medici sapessero la vera arte per guarire, non avrebbero palandrane e pantofole, e berrette a quattro pizzi». E Virginia suggeriva che le coloratissime toghe delle università inglesi servissero a suscitare «competitività e invidia». Un recente, luminoso discorso delle allieve e degli allievi della Scuola Normale Superiore di Pisa, mia amata alma mater, ci ha di recente ricordato quanto questi sentimenti siano attivi, e distruttivi, nell’università prigioniera del mito dell’eccellenza. Dunque, non rifugiamoci nelle insegne che proclamano al mondo che siamo quelli che sanno. Preferiamo l’umiltà – cioè l’amorevole, francescana vicinanza alla terra – di chi sceglie come sua insegna il «non so».
Agli abiti, ai gesti, ai riti, ai pensieri che disegnano l’università come un clero separato dal mondo, preferiamo tutto ciò che ci restituisce al mondo, e al nostro lavoro per cambiarlo.
Per questo accogliamo con gioia e gratitudine le bandiere delle diciassette contrade, il gonfalone della Regione Toscana e quello della Provincia: perché l’università si sente parte di una comunità civile, della sua storia, del suo desiderio di futuro.
Siamo profondamente legati all’amatissima città di Siena, e alle sue istituzioni: qua oggi tra noi rappresentate dalla Balzana, il gonfalone civico che salutiamo con deferenza e con affetto. E desidero inviare il saluto più rispettoso e amichevole al Sindaco di Siena, che ha scelto di non essere presente tra noi.
Abitare il mondo significa – ce lo insegnano le nostre studentesse e i nostri studenti – aver voglia di cambiarlo dalle fondamenta. E la lezione inaugurale, che tra poco ascolteremo, serve a non lasciare dubbi sulla direzione in cui vogliamo cambiarlo, il mondo.
Pietro ed io abbiamo chiesto a Cecilia Strada di aprire questo anno accademico, perché ci pare che Resq, «la nave degli italiani» che solca il Mediterraneo per salvare «esseri umani, leggi e diritti», della quale Cecilia è portavoce, sia tra le luci accese nell’eterna notte della Repubblica.
Italiani che accolgono stranieri: e che per accoglierli li strappano al mare, perché non siano riconsegnati alle carceri libiche – a torture pagate con i soldi delle nostre tasse. Resq salva la nostra stessa identità: «Profugo … povero, ignoto, io vago fra i luoghi deserti di Libia / dall’Europa … respinto»: sono parole del primo canto dell’Eneide, a parlare è Enea.
«Profugo … povero, ignoto, io vago fra i luoghi deserti di Libia / dall’Europa … respinto»: se questo è il mito fondativo di Roma, come potremmo essere più fedeli alla traditio, al passaggio di mano della cultura, se non con la presenza, la testimonianza, la parola di Cecilia Strada?
Siamo stranieri in Italia: da sempre meticci, fusi, diversi, sangue misto, bastardi. Questa la nostra storia: questo il nostro progetto per il futuro. Questo, in una università in cui si impara a diventare stranieri, è davvero il nostro lavoro di ogni giorno.
La nave Resq dice di sé, lo abbiamo sentito, che salva non solo i corpi, ma anche le leggi. Già, le leggi.
Oggi vorrei ricordare che costruendo le basi culturali per aprirci agli stranieri, la nostra università è dalla parte della legge, dell’ordine. È bene ricordarlo, in un’Italia in cui legge e ordine sembrano essere diventate bandiere di chi i migranti li sequestra sulle navi, o li vorrebbe affondare sui barconi.
Nadia Fusini – che oggi ci onora della sua presenza – mi ha regalato l’ancora inedita traduzione di un brano del Thomas More, questo dramma scritto nell’Inghilterra del primo Seicento da un collettivo di autori, uno dei quali fu nientemeno che William Shakespeare.
E proprio in uno dei brani così evidentemente suoi, leggiamo parole che sembrano scritte per oggi. Tomaso Moro, cancelliere del regno, è chiamato a sedare il tumulto del popolo che vorrebbe cacciare gli stranieri che rubano il lavoro agli inglesi. Così si rivolge loro:
Diciamo che sono espulsi, e diciamo che questa vostra protesta
Giunga a ledere la maestosa dignità dell’Inghilterra.
Immaginate di vedere gli stranieri disgraziati,
Coi bambini sulle spalle, i loro miseri bagagli,
Arrancare verso i porti e le coste per imbarcarsi,
E voi assisi in trono, padroni ora dei vostri desideri,
L’autorità soffocata dalle vostre risse,
Voi, agghindati delle vostre opinioni,
Che avrete ottenuto? Ve lo dico io: avrete insegnato
A far prevalere l’insolenza e il pugno forte,
E come si annienta l’ordine. Ma secondo questo schema
Nessuno di voi arriverà alla vecchiaia:
Ché altri furfanti, in balìa delle loro fantasie,
Con quello stesso pugno, con le stesse ragioni, e lo stesso diritto,
Come squali vi attaccheranno, e gli uomini, pesci famelici,
Si ciberanno gli uni degli altri.
…
Volete calpestare gli stranieri,
Ucciderli, sgozzarli, impadronirvi delle loro case,
Mettere il guinzaglio alla maestà della legge
Per aizzarla poi come un cagnaccio. Ahimè! Diciamo che il Re,
Clemente col traditore pentito, rispondesse
In modo non commisurato alla vostra grande colpa,
Mettendovi al bando: dove ve ne andrete?
Quale paese, vista la natura del vostro errore,
Vi darà asilo? Che andiate in Francia o
Nelle Fiandre, in qualsiasi provincia germanica,
In Spagna o in Portogallo,
In qualunque luogo che non sia amico dell’Inghilterra:
Ebbene, lì sareste per forza stranieri. Vi piacerebbe forse
Trovare una nazione di temperamento così barbaro
Che scatenandosi con violenza inaudita,
Vi negasse rifugio sulla terra, anzi
Affilasse detestabili coltelli per le vostre gole,
Scacciandovi come cani, come se non fosse Dio
Che v’ha fatto e creato, come se gli elementi naturali
Non servissero anche ai vostri bisogni
Ma dovessero essere riservati a loro? Cosa pensereste
Di un simile trattamento? Questo è il caso degli stranieri,
Questa la vostra montagnosa disumanità.
Chi caccia lo straniero, chi lo perseguita, chi lo insulta distrugge la legge e l’unico ordine possibile, quello umano. Le parole di Shakespeare sono ancora più vere nell’Italia di oggi, retto da una legge fondamentale, la Costituzione del 1948, che fa del nostro comune essere persone umane il fondamento stesso di ogni legge. E, come vedete, dallo studio della storia e delle lingue, dalla filologia, dalla traduzione estraiamo continuamente, come da un tesoro, cose nuove e cose antiche.
Ecco, dunque, il nostro lavoro: tenere in tensione queste cose. L’antico e il nuovo, il passato e il presente: quella tradizione umanistica che ancora può renderci umani.
«La nostra patria – ci ha ricordato Carlo Rosselli – non si misura a frontiere e cannoni, ma coincide col nostro mondo morale e con la patria di tutti gli uomini liberi».
È un forte, fortissimo invito alla presenza.
Ad essere presenti, contro ogni forma di indifferentismo.
Oggi siamo felici anche perché finalmente possiamo essere qua in presenza – pur conservando, come è doveroso, distanziamenti, mascherine, porte aperte e prudenza.
Il nostro impegno è che questa presenza fisica sia segno e annuncio di una presenza morale, culturale, umana dell’Università per Stranieri: nella città di Siena, in Italia e in un mondo che, anche per noi, coincide con la patria di tutte le donne e di tutti gli uomini liberi.
Buon lavoro a tutte, e a tutti!”.
L’intervento di Cecilia Strada
Dal minuto 1.53.58 al 2.24.57 del video dell’inaugurazione dell’anno accademico è possibile ascoltare le parole di Cecilia Strada