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In uno spettacolo la storia mineraria dell’Amiata

di Fabrizio Pinzuti

AMIATA. “In miniera non ci piove e non ci fiocca”. E’ il titolo di uno spettacolo teatrale che viene rappresentato proprio in questi giorni nella ricorrenza, il 4 dicembre, di Santa Barbara – patrona dei minatori, dei pompieri e di chi lavora con fuoco, armi e esplosivi – ripreso da un modo di dire diffuso tra i minatori per indicare che il lavoro in galleria, anche se faticoso e pericoloso, garantiva un salario fisso alla fine del mese, indipendentemente dalle stagioni e dai rischi di chi perdeva i raccolti, come invece avveniva nelle precedenti attività agricole e silvicole.

La realtà era diversa, come dimostrano i licenziamenti di massa del 1948, del 1959, le ricorrenti crisi, le lunghe e aspre lotte sindacali in difesa del lavoro, la lunga serie di morti, dei postumi di infortuni e malattie professionali (“ho conosciuto in Amiata storie di dolore immenso”, ebbe a dire in un convegno sulla silicosi Mauro Barni, direttore dell’Istituto di Medicina Legale di Siena), le discariche inquinanti ancora presenti nel territorio, gli impianti metallurgici e i siti minerari ancora da bonificare, la rapina coloniale delle risorse da parte dei concessionari esterni, la riduzione della popolazione locale a mano d’opera poco o per niente qualificata, che si è contentata delle briciole dei sontuosi pasti consumati da altri. Operazioni queste ultime non difficili vista la miseria atavica che, al di là delle frasi di rito e delle amenità di storici improvvisati, ha sempre imperversato da queste parti, in parte per una terra difficile da coltivare e avara di raccolti, in parte per l’assoggettamento ai vari padroni e signori succedutisi con il tempo, a cominciare dai Longobardi e dai monaci dell’abbazia, per arrivare agli Aldobrandeschi, alla repubblica di Siena, e perfino agli “illuminati” Lorena, che videro bene di spogliare l’abbazia dei beni che custodiva, come la celeberrima Bibbia Amiatina, anche se l’attuale sua allocazione alla biblioteca Laurenziana di Firenze è la più consona per la messa a disposizione degli studiosi, per valorizzarla e proteggerla. L’attuale rievocazione dell’offerta dei ceri e dei censi diventata una festa di Abbadia, altro non era che il momento in cui i badenghi pagavano tasse tributi e confermavano la loro soggezione, non solo economica, all’abate. Proprio per questo l’offerta dei ceri e dei censi in altre realtà è scomparsa o è diventata una manifestazione secondaria. A Siena per esempio è ricordata tra le cerimonie collaterali del palio di agosto.

Innestandosi in questa situazione economica-sociale, l’attività mineraria, pur con tutti i suoi limiti e i suoi rischi, è stata accettata di buon grado dalle popolazioni dell’Amiata. Oggi è completamente dismessa, ma viene da chiedersi se l’’ultrasecolare monoeconomia che ha pesantemente caratterizzato e condizionato buona parte delle popolazioni amiatine, non abbia finito per incidere sui modelli di sviluppo, se di sviluppo si può trattare. Come spesso accade nelle osmosi sociali, il “modello miniera” può aver esercitato un condizionamento di tipo culturale, agendo da apripista all’accettazione di altre esperienze industriali e manifatturiere, tese a sfruttare le risorse locali ma provenienti e concepite sempre da lontano. Potrebbe essere questo il caso della recente apertura all’attività geotermica espressa dall’attuale amministrazione comunale di Abbadia San Salvatore, dopo il no deciso della precedente amministrazione e l’opera meritevole di sindaci, anche di altri comuni, non a caso rimbalzata all’attenzione degli storici, sindaci che hanno  cercato di smitizzare la miniera e di ricondurla agli ambiti propri, cercando di suggerire e di mettere in pratica, anche prima della dismissione dell’attività estrattiva e metallurgica, altri modelli di sviluppo. Eppure non mancavano in Amiata esempi di economia alternativi e indipendenti dalla miniera. In buona parte del versante grossetano della montagna la castanicoltura e la produzione agricola di qualità sono realtà ormai consolidate (IGP della castagna, DOP dell’olivastra seggianese, DOC del vino Montecucco, produzioni di eccellenza nel settore dolciario, alimentare e caseario) con effetti positivi anche sotto il profilo del paesaggio e dell’ambiente. La cura, la manutenzione e la coltivazione dei terreni e l’oculato sfruttamento dei prodotti del bosco e del sottobosco, migliorano l’ecosistema e consentono redditi dignitosi. In buona parte del versante senese la silvicoltura, per tanto tempo piegata sul bosco ceduo per ricavarne legname per la costruzione delle armature delle gallerie, è stata abbandonata e si deve intervenire per mitigare tagli eccessivi. Né mancano altre esperienze di artigianato di qualità, peraltro a basso impatto ambientale, che potrebbero costituire una valida alternativa. Chi scrive è figlio di un minatore, è nato e cresciuto da queste parti, ha conosciuto, anche come residente a lungo all’interno del perimetro minerario, direttamente la miniera anche nei suoi aspetti, risvolti e implicazioni di carattere sociale, economico, politico, urbanistico, storico, cercando di coglierne le specificità ma anche di inquadrarla e di inserirla nei processi più generali di industrializzazione del paese, ed ha presente che tipo di condizionamento può comportare un’attività durata tanto a lungo, come unico o quasi esclusivo volano economico. In un momento in cui vengono al pettine i tanti nodi di tali processi e non c’è unanimità nemmeno tra l’Enel e gli altri fautori dell’attività geotermica, sul ciclo binario, sulle centrali flash, sulle emissioni in atmosfera e sugli effetti sulla salute umana e sull’ambiente, sulla possibile sismicità indotta, sulle falde idropotabili, sulla subsidenza, e dove l’unica ragionevolezza sembra il principio di cautela raccomandato anche dall’ONU (“nel dubbio astenersi”) e in qualche maniera fatto proprio anche da papa Francesco nell’enciclica “Laudato si” sulla cura della casa comune, l’accettazione delle centrali può apparire il residuo di una anacronistica cultura postindustriale.

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