CHIANTI. Non è più tempo di donne con le pezzole in testa, le sottane rimboccate e con i piedi scalzi, affondate fin nelle cosce, impegnate ad ammostare l’uva nei tini di legno scoperti.
Semmai è il tempo di qualche rievocazione (a scopo puramente turistico) con delle giovani e soavi fanciulle che si calano felici nell’uva per provare l’efficacia benefica del massaggio dell’uva sulla pelle, calcolando però che quel vino pestato, per esperti assaggiatori, avrà un vago sottofondo di Chanel numero 5 fra il fruttato e la tostatura del legno.
Centinaia di punteggi favorevoli, nelle guide enologiche di tutto il mondo accoglieranno la novità, più che al ritorno di una pregevole beva e freschezza.
Non è più il tempo di vecchi Fiat 605 catarrosi con ai alti, nei filari, gruppi compositi di studenti, belle casalinghe e pensionati, che raccolgono uva, riempiendo panieri.
Le prime macchine vendemmiatrici arrivate all’inizio degli anni ’80, erano delle vere e proprie mieti trebbia trainate dal trattore: pali, uva, fili di ferro, che diventavano poi il martirio delle diraspatrici e l’impazzimento dei cantinieri.
I vigneti non erano preparati a tale innovazione, la tecnologia tanto aveva da affinare prima di arrivare alle moderne macchine raccoglitrici, che scavallano il filare, pettinano l’uva, la trasportano nella propria pancia, lasciando pulito il raspo integro sulla vite come se fosse passato un abile capriolo a far merenda.
Due i trattori muniti di carrello, uno il conducente, che fa la spola con la cantina, mentre il conduttore della vendemmiatrice coglie e riempie l’altro carrello.