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Direttore responsabile Raffaella Zelia Ruscitto
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Il mondo è una palla ovale: intervista a Massimo Giovanelli

SIENA. Una foto sgranata, due gruppi di giocatori entusiasti con gli indumenti lordi di fango. In mezzo, quasi stupito da tanta felicità, un uomo sorridente dai lunghi capelli castani. La foto ritrae di Massimo Giovanelli al Campo dell’Acquacalda, in una giornata di pioggia, quando ancora il rugby senese era un ristretto circolo di amici.  
Sono passati dieci anni, neppure troppi. Domani il Cus scenderà in campo a Prato contro l’Imola Rugby. Per approfondire la conoscenza sul rugby al di là dell’Appenino abbiamo subito pensato a lui, parmigiano, uno dei tre azzurri immortalati tra i grandi nel Museo di Twickenham. In cifre: 61 caps in azzurro, 37 da capitano e tre coppe del mondo disputate; nell’immaginario collettivo, è il capitano della nazionale vittoriosa a Grenoble nel marzo 1997 contro la Francia, nell’unico successo della storia azzurra contro i cugini d’oltralpe, e del vittorioso debutto nel Sei Nazioni, contro la Scozia, a Roma, nel febbraio 2000.
Per parlare del rugby in Emilia Romagna non possiamo non iniziare dalla sua Parma. Tutto iniziò con il Guf, la squadra universitaria, negli anni Trenta. Curiosamente fu proprio il Guf Parma ad estromettere quello di Siena al primo turno del torneo di rugby dei Littoriali del 1935.
“A ben guardare molte delle realtà italiane ancora sulla cresta dell’onda sono nate proprio in quegli anni”.
Vero. Ma i Guf vennero istituiti in tutte le città universitarie, e solo in alcune il movimento proseguì dopo la guerra. Nella maggior parte si spense. In altre parole: perché a Parma il rugby prese piede e a Bologna (e anche a Siena), no?
“E’ una domanda difficile. Si potrebbe tentare di rispondere seguendo un filo che non ha che fare, direttamente, con lo sport. Seguiamo la via Emilia. C’è una continuità culturale che va da Rimini fino a Reggio. Poi qualcosa cambia. Parma e Piacenza sono in parte diverse, risentono un po’ della vicinanza della Lombardia. Parma è legatissima alle sue tradizioni, la cucina, la lirica, ma è anche una terra aperta alle novità, ai grandi traffici; è una terra di grandi imprenditori. Forse in questa sua maggiore disponibilità a sperimentare il nuovo potremmo trovare una risposta”.Parma vinse tre campionati; nel 1950, ’55 e ’57, ha due squadre in Superdieci e continua a sfornare azzurri. L’ultimo è il mediano Tebaldi. Mentre a Bologna e il Romagna?
“Il capoluogo fa un po’ più fatica ad innamorarsi degli sport. Anche lo stesso Bologna calcio, pur popolare, ha le sue difficoltà. Poi a Bologna c’è il basket. In Romagna ci sono un po’ le stesse problematiche. Ho visto passare la meteora Cesena, che aveva puntato un po’ troppo sugli stranieri”.
Di Imola cosa sa?
“Posso solo dire che è una buona società che sta lavorando bene e che ha un buon settore giovanile. Aggiungo che oggi nella mia regione si gioca quasi dappertutto, anche se molto da lavorare. Credo che sulla costa ci sarebbero margini di grande crescita. I romagnoli sono molto intraprendenti e si potrebbe puntare sui tornei di beach rugby ai quali invitare giocatori di classe internazionale. Il successo poi si riverberebbe sul gioco a XV. Però c’è anche un altro aspetto, più generale, che forse vale un po’ dappertutto in Italia. Anche quando vengono realizzati non basta costruire gli impianti, servirebbero amministrazioni in grado di capire i valori  formativi dello sport, che investono insomma in cultura”.
Chiudiamo qui la prima parte dell’intervista. Veniamo all’uomo. Giovanelli, classe 1967, si forma a Noceto, poi va a Milano dove vince tre titoli italiani.
“Dopo aver vinto tre scudetti volevo confrontarmi con una realtà più evoluta; anche per darmi nuovi obiettivi. Giocai il primo anno nel Puc (la squadra universitaria di Parigi), il secondo nel Narbonne. L’esperienza fu probante: la Francia, ha livello rugbistica è un altro pianeta rispetto l’Italia, per impianti, numeri del movimento, qualità dei giocatori. Ciò nonostante proprio durante la mia permanenza in Francia, ci fu la ciliegina di Grenoble, la nostra prima, e per ora unica, vittoria contro les bleus”.
Insomma, prima di Dominguez, Troncon, dei fratelli Bergamasco e di Parisse, ha ripercorso il cammino di quei rari giocatori italiani di grande talento che li portati a giocare nel campionato d’oltralpe?
“Mi piace sottolineare che tra questi c’è stato un grande parmigiano, Sergio Lanfranchi, che i francesi soprannominarono ‘la bête’ e definirono ‘l’homme qui ne deserte jamais’. L’uomo che non si arrende mai. Un giocatore polivalente, in grado di giocare da pilone a terza linea. Una cosa oggi impensabile. Oltre a lui vorrei ricordare il rodigino Maci Battaglini (a Vienne dal 1946-49) e il bresciano Franco Zani (ad Agen, dal 1961-74), che i francesi tentarono in ogni modo di prendere la nazionalità transalpina per schierarlo in nazionale”.

Nel 1964-65 Zani venne incoronato miglior giocatore del campionato transalpino. Ricordo di averlo visto in un documentario francese correre con la palla in mano, a testa alta: con il portamento di un imperatore romano, sintetizzava lo speaker.
“Ma lui rifiutò sempre di diventare francese, orgoglioso di essere italiano”.
Torniamo a lei. Qual è la sua attività attuale?
“Mi sono laureato in architettura ed esercito l’attività. La vita non finisce a trent’anni, o comunque quando si cessa l’attività sportiva, anche ad alto livello. La cultura conta molto nella vita. Mi sono specializzato nell’architettura biocompatibile, attenta e rispettosa dell’ambiente. E’ un settore che ha bisogno di clienti che guardano in avanti, ma che, per fortuna ci sono”
E col rugby?
“Non ho certo reciso i rapporti. Sono direttore tecnico dell’Amatori Milano, una grande, storica società, una delle più titolate d’Italia. A dir la verità mi sono messo in stand-by, in attesa di un chiarimento sulla strada da seguire con la società. C’era un progetto ben preciso e non voglio tradirlo”.
Come gli appassionati sanno bene Giovanelli non è un tipo da facili compromessi, come mostra il contrastato rapporto con un altro parmigiano, il Presidente della Federazione Dondi.
Quali sono secondo lei le prospettive del rugby italiano?
“Detto rapidamente, la nazionale è una locomotiva staccata da vagoni. Sarebbe necessario riequilibrare la condizione, favorire la crescita delle piccole società e dei giovani rugbisti. Anche la Celtic League rientra in questo quadro. Bisogna creare giocatori di alto livello per alimentare le società che partecipano a questa vetrina. C’è infine un’altra questione da affrontare, la diversità tra centro nord e meridione dove il movimento, fatta eccezione per qualche realtà, segna il passo”.
“Conto di venire a trovarvi d’estate”, conclude. Ha già fatto una mezza promessa a Michele Rizzi.
La visita di Giovanelli non fu fine a se stessa. “Fu il primo che ci spinse a puntare sul settore giovanile – ricorda Antonio Cinotti, responsabile della sezione rugby del Cus – e di fronte alle nostre perplessità, ci raccontò la realtà della provincia di Parma, di quanto fosse rigoglioso il suo vivaio e di quanto contribuisse alla forza delle prime squadre”.
Abbiamo lasciato Giovanelli in trionfo a Roma nel febbraio 2000; la sua ultima partita in nazionale. Non certo per scelta. Il rischio, concreto, di perdere la vista da un occhio (conseguenza di un grave distacco di retina), lo obbliga a fermarsi. Riprende nel 2003, nel Colorno, un’altra realtà di tutto rispetto dell’hinterland parmense. Gioca fino al maggio 2007, quando solo aver raggiunto il limite di età di 40 anni, lo obbliga, come si dice con una frase fin troppo abusata, ad appendere gli scarpini al chiodo. Quel giorno, la tribuna dello stadio di Colorno venne quasi giù dagli applausi.
(Nella foto, 8 ottobre 2000. Giovanelli festeggiato al termine dell’amichevole Cus Siena – Asti (18-18). Allenatrice del Cus in quell’anno era la giocatrice della nazionale Cristina Tonna)

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