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Zoombombing: il nuovo “sport” per annoiati cyberbulli

Nei canali degli #zoombombers non si ha l’idea di essere in una chat di “esperti” o di “delinquenti”

di Michele Pinassi*

“La libertà di ogni individuo deve avere questo preciso limite:
egli non deve essere di disturbo agli altri” (John Stuart Mill)

SIENA. Come riempire le lunghe giornate chiusi in casa, senza poter andare a scuola e senz’altro da fare? Beh, c’è chi non ha avuto di meglio da fare che impegnare energie a disturbare gli eventi che si tenevano in videoconferenza, creando gruppi di coordinamento per “attaccare” tutti insieme la malcapitata “stanza virtuale” di turno e impedirne il normale svolgimento. Un fenomeno nuovo, ribattezzato “Zoombombing” dalla prima piattaforma di videoconferenze – Zoom, appunto – presa di mira. Ma nel mirino di questi cyberbulli sono entrate più o meno tutte le piattaforme conosciute, Google Meet inclusa.

L’ultima notizia di cronaca parla di un gruppo di ragazzi, due maggiorenni e un minorenne, che facevano incursioni durante le video-lezioni didattiche, complice la fornitura delle credenziali di accesso da parte dei legittimi partecipanti: la Polizia Postale è riuscita a individuarli (e denunciarli) e dovranno adesso rispondere di accuse gravi come “accesso abusivo a sistema informatico” e “interruzione di pubblico servizio“. Dalle notizie a mezzo stampa risulta che il gruppetto riceveva le credenziali via Telegram, su un canale creato ad-hoc “RAID LEZIONI”, dove si coordinavano per le azioni di disturbo.

È bastata una veloce ricerca su Telegram per individuare altri canali dediti allo scopo (a quanto pare, è un passatempo piuttosto diffuso…).

A quanto pare, la modalità è più o meno sempre la solita: qualcuno pubblica il link dell’evento pubblico e il “branco” vi accede. Addirittura, si danno consigli su come non farsi espellere:

Sulla chat circola davvero di tutto, da eventi su Zoom e su Meet con tanto di password e altre info utili all’accesso, agli screenshot delle incursioni, con cui vantarsi. Non è un gruppo particolarmente grande, poco più di 230 iscritti, ma le attività di disturbo sembrano essere pressoché quotidiane.

Tra chi entra con l’esplicito obiettivo di chiedere un raid:

e chi, dopo la notizia degli arresti, inizia a farsi quale scrupolo:

Non si ha l’idea di essere dentro a una chat di “esperti” o di “delinquenti”. Piuttosto, ragazzini annoiati del tutto ignari delle conseguenze delle loro “bravate”, tanto che qualcuno pubblica screenshot con dati personali in chiaro, come se non temessero alcunché. La spavalderia sembra farla da padrona e sorprende la leggerezza con cui ci si vanta, in modo anche puerile, dei “raid” compiuti. Incuranti e ignari delle conseguenze a cui si espongono.

Se in un evento fisico i disturbatori hanno un volto e possono essere individuati e cacciati dall’aula, nel mondo virtuale diventa più difficile riuscire a identificare i responsabili. Sia per le spesso limitate possibilità delle piattaforme di videoconferenza, che non sempre permettono di risalire agli IP degli intervenuti per motivi legati alla privacy, che per le difficoltà dovute alle procedure normative per le indagini, legate agli accordi anche internazionali.

Anche risalendo all’IP dell’utente, non è sempre garantito che si possa risalire alla sua identificazione: potrebbe essere una connessione pubblica (es. un bar, un hotel o un caffè) o una rete wifi non adeguatamente protetta. La connessione potrebbe essere stata fatta rimbalzare su un proxy o una VPN con exit-node in un Paese con normative particolarmente stringenti sulla privacy. Insomma, anche senza avere particolari capacità tecniche, non è impossibile farla franca.

Chi organizza una videoconferenza dovrebbe considerare anche questi aspetti. Sebbene non sia possibile azzerare il rischio, si possono adottare delle procedure per mitigarlo. Come prima cosa, va deciso se deve essere concesso agli ospiti d’intervenire. È forse questo l’aspetto più critico, perché le azioni di disturbo sono principalmente portate avanti attraverso i canali audio e video (l’altro canale usato è la chat testuale, con effetto tuttavia minore).

Nel caso di eventi pubblici o presentazioni far intervenire gli ospiti può essere gradito: in questo caso, raccomando la massima prudenza a chi si concede di utilizzare il canale audio e video. È buona norma impostare microfono e webcam disattivata per tutti i partecipanti, riservando l’attivazione degli stessi solo al moderatore della conferenza stessa. Importante anche richiedere l’autenticazione degli utenti partecipanti, che permetterà comunque di avere qualche indizio in più nel caso di problemi (e anche scoraggiare eventuali disturbatori non troppo motivati).

L’ideale è implementare una stanza per gli ospiti che devono intervenire, riservata, sulla piattaforma di videoconferenze e trasmettere la conferenza, a uso e consumo del pubblico, su una delle tante piattaforme di streaming come Youtube: questo permette di beneficiare dell’infrastruttura della piattaforma di streaming per la diffusione in broadcasting, permettendo anche una certa interazione con gli spettatori, evitando però incursioni indesiderate. Se questo non è possibile, ad esempio durante una lezione o un meeting riservato, mantenere uno stretto controllo di moderazione, concedendo il permesso d’intervenire in audio e video solo quando opportuno e solo per il periodo strettamente necessario.

Nel caso la vostra attuale piattaforma di videoconferenza non permettesse un serio controllo degli utenti, valutate l’adozione di una soluzione più adeguata alle vostre esigenze.

Per finire, non esistono soluzioni definitive per evitare il problema. Possiamo però cercare di mitigarlo al meglio possibile: gli attacchi di zoombombing non sono solamente fastidiosi ma spesso provocano un danno d’immagine non trascurabile per gli organizzatori. Se impedirlo è impossibile, rendiamo la vita a questi cyberbulli il più difficile possibile.

*www.zerozone.it

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