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Direttore responsabile Raffaella Zelia Ruscitto
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“Da spettatori a protettori: il Palio di Siena e i nuovi contradaioli”

La tesi di Simone Tafuri è la lunga lettera d'amore di un "forestiero"

di Simone Tafuri

MILANO. C’è più di una ragione se ho scelto di scrivere la mia tesi di laurea in filosofia sul Palio di Siena. Una di esse è la mia vita: sono romano, vivo a Milano, lavoro in ambito finanziario e non avevo alcuna connessione con Siena, ma da quasi vent’anni il Palio è il mio centro di gravità, il mio punto fermo, la mia direzione silenziosa.
Nel 2017, dopo una laurea magistrale in ingegneria gestionale, anni di lavoro all’estero e un master in amministrazione aziendale, ho deciso di tornare all’università per affrontare una seconda laurea. Ho scelto di studiare filosofia, perché avevo bisogno di andare a fondo, di dare parole nuove alle cose che sentivo da sempre, e quando è arrivato il momento della tesi, non ho avuto dubbi: doveva essere sul Palio.

La mia tesi si intitola “Da spettatori a protettori: il Palio di Siena e i nuovi contradaioli”. Ma è prima di tutto una confessione intellettuale, un tentativo di raccontare il processo lento, complesso e delicato con cui una persona che non nasce a Siena o da senesi può diventare, senza mai pretendere, parte viva di una Contrada.
Molti senesi guardano con attenzione, talvolta con diffidenza, ai nuovi ingressi. E fanno bene, perché il rischio non è l’inclusione, ma la banalizzazione. Diventare contradaiolo non è indossare un fazzoletto o partecipare a una cena estiva: è un processo di assimilazione morale che può durare anni, e che non ha garanzie di successo. Lo sanno bene quelli che, come me, si sono trovati a “chiedere permesso” per anni, cercando di essere utili senza disturbare, presenti senza invadere, appassionati senza ostentare.
Il mio elaborato nasce dal desiderio di capire cosa accade, davvero, quando si sceglie di appartenere a una Contrada pur non essendoci nati. È un percorso personale, ma anche un tema sociale e antropologico che mi sembrava poco indagato, è stata l’occasione per mettere in ordine pensieri sparsi da anni, ma anche per dare dignità teorica a un’esperienza che sento vera e condivisa da tanti.

Diventare parte di una Contrada non è un diritto da rivendicare ma una possibilità da meritare. L’ho vissuto in prima persona: ci sono sguardi che ti scrutano, silenzi che ti mettono alla prova, prove che non sai nemmeno di star sostenendo. Ma se resti, se dimostri di voler solo dare, allora qualcosa cambia, e un giorno ti accorgi che sei chiamato per nome.

Io ho iniziato da spettatore, come tanti, poi sono entrato nel corteo storico del Comune di Siena come comparsa, e per dieci anni ho avuto l’onore di commuovermi a ogni passo da monturato. Ho seguito i consigli di chi avevo conosciuto nel frattempo rimanendo in silenzio, senza cercare meriti o riconoscimenti, perché chi viene da fuori non deve chiedere, ma solo offrire. Soprattutto deve sapere aspettare, perché il
Palio è fatto di tempi lunghi, di silenzi eloquenti, di fiducia che si guadagna senza proclami.
Nel frattempo, la mia vita andava avanti: mi sono sposato, è nato mio figlio. Il giorno in cui ho visto la bandiera del Drago issata all’Oratorio per celebrare la sua nascita, mi sono commosso come non mi era mai successo prima. In quel momento ho capito che tutto il cammino, ogni passo fatto senza forzare, aveva trovato casa. E che, forse, non ero più solo un “forestiero”.

La Contrada del Drago è oggi parte della mia identità ed è anche il contesto in cui vorrei che mio figlio potesse crescere, sebbene so che non sarà possibile, perché lì, in mezzo a quelle persone, ho visto un’educazione alla responsabilità, al rispetto e alla memoria, una forma di comunità che non si fonda sul consumo, ma sulla condivisione profonda.
Questa non è solo la mia storia, ma è la storia di chi, da “fuori”, si è innamorato di qualcosa di antico e vivo. È la storia di chi ha capito che il Palio non è uno spettacolo, ma un rito vero che non è un bene da spiegare, ma una relazione da onorare. Il Palio accoglie anche i forestieri, ma solo quelli che sanno restare abbastanza a lungo da impararne la lingua fatta di silenzi, servizio e memoria, tra le altre cose.

Nel tempo ho capito che la vera prova non è essere presente durante il Palio, ma esserlo quando non succede niente, come alle assemblee, agli eventi per i giovani, ai cenini infrasettimanali d’inverno. È lì che si costruisce il senso di appartenenza e si dimostra che non sei venuto per vedere, ma per restare, cercando di capire con pazienza, discrezione e rispetto. Io lo sto imparando passo dopo passo, senza mai chiedere
nulla, cercando di partecipare in punta di piedi, come credo dovrebbe essere per chi entra da ospite.

Il mio lavoro ha indagato, con occhi filosofici e antropologici, come si passa dal guardare al partecipare, dall’essere pubblico all’essere parte. È un passaggio pieno di ostacoli, spesso invisibili eppure fondamentale e che mi fa sostenere che il Palio educa, non solo chi ci nasce dentro, ma anche chi ci arriva da fuori, se accetta di farsi cambiare. È una scuola di cittadinanza emotiva prima che civile. Se questa tesi serve a qualcosa, è a raccontare che ci si può sentire figli anche se non vi si è nati, e che a volte le appartenenze più autentiche non sono ereditarie, ma scelte, faticose, volute fino in fondo. La sfida del presente è proprio questa: aprire senza snaturare. Accogliere chi ha rispetto, curiosità, voglia di dare e rifiutare chi vuole solo indossare un’identità, come si mette una maglia. Le Contrade, come ogni comunità viva, devono restare resilienti ma permeabili, fedeli ma intelligenti, e devono anche saper dire no.
C’è una retorica moderna che tende a voler aprire ogni cosa a chiunque. Il Palio non si presta a questa logica, non è uno spettacolo, è un’appartenenza. Il Palio non è per tutti, ed è giusto così.

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