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Libano: un paese in bilico

Un viaggio 32 anni dopo la strage di Sabra e Chatila

di Augusto Mattioli
BEIRUT. Anziane donne, il volto segnato ancora da ricordi dolorosi, mostrano le foto dei parenti morti drammaticamente in quella che oggi viene definita “una strage dimenticata”. Quella di Sabra e Chatila avvenuta 32 anni fa tra il 16 e il 18 settembre ad opera delle Falangi libanesi, alleate con Israele, che nel giugno del 1982 era entrato con il suo esercito nel paese dei cedri per un’azione contro l’Olp, l’organizzazione per la liberazione d ella Palestina. Le responsabilità di quel massacro non sono mai state volute accertare. Ma molte testimonianze dicono che c’è stato un supporto logistico importante da parte dell’esercito israeliano, comandato da Ariel Sharon.
Nel 1983 il presidente della repubblica Sandro Pertini dopo avere visitato il Libano dichiarò con la sua proverbiale schiettezza:”E’ una cosa che angoscia vedere questo cimitero dove sono sepolte le vittime di questo massacro. Il responsabile è ancora al governo in Israele. E quasi va baldanzoso di questo massacro compiuto”. L’angoscia di Pertini si legge ancora nelle facce piene di rughe delle donne che ricordano i loro morti come se non fossero passati 32 anni.
Siamo in Libano a Beirut nella sede nazionale dell’ordine dei giornalisti dove si tiene una manifestazione per ricordare quel tragico evento che provocò migliaia di vittime. Dall’Italia è arrivato un gruppo organizzato dall’associazione “Per non dimenticare Sabra e Chatila”, il cui scopo è quello di non far cadere nel dimenticatoio quella strage, ma anche porre al centro dell’attenzione dell’opinione pubblica nazionale e internazionale il tema del diritto al ritorno dei palestinesi nelle terre che hanno dovuto abbandonare dopo la costituzione dello stato israeliano. Un diritto, al centro anche di una colorita manifestazione nel giorno delle celebrazioni del 32 ° anniversario della strage, che sembra molto lontano dal concretizzarsi.
Ne sono ben consci anche gli stessi profughi palestinesi che vivono nei campi del Libano. Lo si capisce dalla scritta in un muro del campo di Al Bus a Tiro nel sud del paese. “Se noi e i nostri figli non torneremo sicuramente i nostri nipoti lo faranno!”. In totale i profughi palestinesi che vivono nei campi libanesi – almeno quelli ufficialmente censiti – si aggirerebbero sui quattro milioni. Conducono un’esistenza difficile da immaginare. Chatila sembra un vero e proprio formicaio. Una strada principale affollata di gente, tanti negozi di varie merci di sussistenza, non quelli delle strade eleganti di Beirut. Se ti addentri nel cuore di questo come degli altri campi sparsi nel paese, rischi di perderti se non hai chi ti accompagna. Si cammina in cunicoli poco più larghi di un metro dove giovani a bordo di motorini si muovono con assoluta destrezza. Non ci sono spazi per cui gli edifici si sviluppano in altezza. Tutto sembra provvisorio. In realtà, è qualcosa sta lì da anni. E fanno impressione i numerosi fili della luce che sovrastano i cunicoli che nei giorni di pioggia costituiscono un grande pericolo per tutti ma soprattutto per i bambini che sono numerosi. Già, i bambini- Quando vedono lo straniero gli sorridono, fiduciosi. Hanno un diverso atteggiamento i ragazzi più grandi. Che magari non ti dicono niente ma si legge nei loro occhi la rabbia di chi sente di avere poche prospettive future, al di là della vita nel campo. I bambini però non sono lasciati soli a se stessi. Nel campo di Rashidieh abbiamo assistito ad uno spettacolo di musica e ballo con giovanissimi tutto incentrato sulle tradizioni palestinesi e sulla speranza del diritto al ritorno.

Quella dei palestinesi in Libano è una vita senza diritti. Il paese, circa quattro milioni di abitanti, forse qualcosa di meno, sembra solo sopportare questa presenza. Ci dice un amico libanese che vive a Siena. “In effetti è così. Non ci si rende davvero conto di come vive questa gente”. Lo stesso Libano è uno stato che vive in un instabile equilibrio. Un parlamento che non funziona, un presidente della repubblica che non si riesce ad eleggere, un governo che se ne dovrebbe andare e un altro che non riesce a subentrare. Una situazione frutto della presenza di vari gruppi religiosi cristiani delle vari confessioni e musulmani anch’essi divisi (ognuno dei quali ha proprie milizie), che l’attuale costituzione di limita a registrare. C’è chi come il partito comunista libanese o altri partiti spinge per una costituzione più laica ma si tratta di posizioni minoritarie che non sembrano avere spazio.

Per Talal Salman, considerato uno degli intellettuali più lucidi del medio oriente, direttore del quotidiano progressista Alsafir – sempre presente in edicola anche nei periodi più difficili del paese – che ha incontrato  la delegazione italiana, si tratta di “una situazione di grande preoccupazione”. Il Libano ha risentito in maniera particolare della guerra di Gaza, conclusasi con un tragico bilancio tra la popolazione palestinese (più di 2000 morti), così come di quella che si sta combattendo in Siria con cui storicamente ha sempre avuto legami stretti. Il timore è che i seguaci del califfato possano in qualche modo entrare nel paese. Proprio qualche giorno prima che gli italiani partissero nella valle della Bekaa ad una trentina di chilometri ad est di Beirut, tre miliziani di Hezbollah, il gruppo politico religioso molto forte nel paese che guarda all’Iran, sono stati uccisi sembra da seguaci di un gruppo vicino ad Al Quaeda.

Libano dunque come un paese di frontiera che risente in maniera forte di ciò che accade nei paesi confinanti. E infatti la guerra in Siria ha fatto arrivare altri profughi che si sono aggiunti ai palestinesi. Molti sono giovani e giovanissimi. Un paio di loro ci avvicinano ad una manifestazione pubblica del partito comunista, chiedendo cosa succede. Una spiegazione e l’inizio di una stentata chiacchierata in inglese. Ci dicono che sono scappati dalla guerra, che i libanesi non li amano e che vorrebbero partire. Per l’America. O forse per il Bord Europa. Altri giovanissimi li vediamo girare anche nei pressi della zona degli albergh con una borsa a tracolla. Sono lustrascarpe alla ricerca di un cliente. Un modo incerto per sopravvivere. Sono gli scuscià di oggi.

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