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Professor Clarich, anche Lei di nuovo !?!

Aurigi ripercorre e ripropone un tratto fondamentale della storia bancaria d'Italia

di Mauro Aurigi

SIENA. A volte ritornano, soprattutto se sono professori: prima Pier Luigi Fabrizi, ora Marcello Clarich, ambedue supposti quali candidati alla presidenza della Fondazione MPS. Unico che non si è fatto rivedere è Marcello De Cecco (onore al merito).

Mai conosciuto personalmente il  Clarich.  Praticamente non so chi sia se non per quello che si legge in rete. Una sola volta ho avuto occasione di confrontarmi, non con Lui, ma col Clarich-pensiero, agli inizi degli anni ’90 dello scorso secolo, quando il Prof unì la sua acritica voce (addirittura sull’autorevolissimo Sole 24 Ore) al coro nazionale di quelle aquile della politica e dell’economia che improvvisamente si erano accorte che il sistema bancario italiano si reggeva ormai esclusivamente sulle banche pubbliche (“ foresta pietrificata, palla al piede dell’economia nazionale ecc. ecc.“), per cui bisognava urgentemente provvedere a privatizzarle. Si può perdonare a quelle “aquile” (Amato, D’Alema, Ciampi, Dini, Piccini, Starnini, Spinelli,  Ceccuzzi, ecc., ma anche sindacati e Confindustria) più di una lacuna in materia di teoria e prassi economiche. Ma a Clarich, che ha un curriculum da far invidia a una testa d’uovo havardiana, non possiamo perdonare niente. Perché il più idiota di noi comuni mortali di fronte al fenomeno strano di un sistema bancario libero ma basato soprattutto se non esclusivamente su banche pubbliche, si sarebbe subito chiesto:  perché? E a noi idioti ‒ ma non a Clarich e alle altre “aquile” ‒  sarebbe bastato poco per capire che le banche italiane erano soprattutto pubbliche perché quelle private erano soprattutto fallite.

QUATTRO CRISI ECONOMICHE POST–UNITARIE : GLOBALI E, ORMAI E’ CERTO,  CICLICHE

 L’ho scritto altre volte (ma repetita juvant) che quattro sono – per ora – le grandi crisi dell’economia (non solo nazionale) dal compimento dell’Unità d’Italia ad oggi: quella di fine Ottocento, quella dopo la prima guerra mondiale, quella dopo la seconda e infine quella attuale. Ognuna di esse ha provocato la scomparsa di quasi tutte le banche private (certamente tutte le maggiori). E tutti quei fallimenti sono sempre l’effetto delle ingegnerie finanziarie ‒ oggi si direbbe “finanza creativa” ‒ che l’avidità incontrollata dei grandi banchieri privati, anche in combutta con politici e magnati, architettava sempre sul filo del rasoio e spesso oltre.

 Nella crisi di fine Ottocento scomparvero sommerse da scandali e fallimenti la Banca Romana di Sconto (in quanto istituto d’emissione per conto dello Stato stampava carta moneta perfino per “uso proprio”), la Banca Generale, la Società di Credito Generale e uno sciame di banche minori.

Ricostituito il sistema bancario italiano, con capitale tedesco e svizzero visto che le risorse italiane erano state distrutte in quei fallimenti, le banche private rifallirono nuovamente tutte nella seconda grande crisi intorno agli anni ’30 del Novecento per l’abbraccio incestuoso col sistema industriale: Banca Commerciale italiana, Credito italiano, Banco di Roma, Banca Toscana ecc.).

La terza crisi, quella del secondo dopoguerra, grazie agli accordi di Brettonwood (1944) non fu così esplosiva, ma ebbe gli stessi effetti ancorché diluiti nella seconda metà del secolo, nel corso della quale sparirono Banco Ambrosiano, Banca Privata Italiana, Istituto Bancario Italiano, Banca d’America e d’Italia, Banca Nazionale dell’Agricoltura, Credito Lombardo, Banca Agricola Mantovana, Banca Cattolica, Banca AntonvenetaBanca 121, Credito commerciale ecc. (questi nomi a molti di noi suonano ancora familiari, ma quelle banche non ci sono più).

ECCO COME HANNO FATTO LE BANCHE PUBBLICHE A CRESCERE E DOMINARE IL MERCATO

Alla fine di queste crisi restavano in piedi solo le banche pubbliche, più forti che mai: soprattutto San Paolo di Torino, Cariplo di Milano, Monte dei Pachi di Siena (questo più solido di tutte con i massimi voti delle agenzie internazionali di valutazione), tra le più solide d’Europa, alle quali si deve aggiungere la gran parte delle Casse di Risparmio. Gestite direttamente o indirettamente dalle comunità locali (a differenza dei banchi pubblici meridionali, gestiti da forze molto meno etiche) queste banche erano sempre state lontane dalla finanza facile, molto redditizia ma rischiosissima, ed arrivavano alle crisi tutte in perfetta salute e con le casse strabordanti liquidità. Insomma per quelle banche, rimaste sole e ricche sul mercato, le crisi erano una benedizione del Cielo: costrette a crescere anche se non lo avessero voluto. In effetti non avevano particolari strategie espansive né di altro tipo, se non quella di essere particolarmente attente agli affari soprattutto sul territorio, tesaurizzando con cura ogni guadagno. Insomma con l’arrivo della crisi quelle banche erano praticamente costrette all’espansione.  Ecco perché alla fine il sistema bancario italiano si è trovato ad essere tutto pubblico, e soprattutto sano.

Perché a questo punto – e siamo ai primi anni ’90 del secolo scorso – se in Italia le banche private falliscono mentre le banche pubbliche prosperano, queste ultime vengono tutte privatizzate? Appartenevano ai popoli dei territori interessati, ma nessuno interpellò quei popoli (tre tentativi di referendum popolare a Siena furono vanificati da politica, burocrazia e magistratura legate da un comune sentire). Sono bastati poco più di 10 anni perché le ex ottime banche pubbliche ormai privatizzate arrivassero al ripetersi ciclico della quarta crisi (2008) come sempre ci erano arrivate le banche private del passato: svuotate e, secondo molti, tecnicamente fallite (il Monte, che pure era la migliore, in condizioni peggiori di tutte).

COSA POTEVA SUCCEDERE SENZA QUELLE PRIVATIZZAZIONI

E questa è la prima grande crisi in cui l’economia nazionale non avrà il paracadute delle banche pubbliche: anche per questo si stenta ad uscirne più che dalle altre. Perché gran parte delle difficoltà nascono proprio dal fatto che il sistema bancario italiano, tutto privato, non ha le disponibilità e/o la volontà di sostenere finanziariamente le imprese. 

Queste cose non le sa il Clarich? Non si studiano nelle università italiane? Dopo la canea degli anni ’90 sulla triste sorte delle banche pubbliche che senza la privatizzaione non avrebbero retto la sfida internazionale, ora che la farsa si è trasformata in tragedia, perché sul tema c’è questo assordante silenzio di Amato, D’Alema, Ciampi, Dini, Piccini, Starnini, Spinelli, Ceccuzzi, ecc., ma anche di sindacati e Confindustria? E manca anche il Suo vociare prof. Clarich (oppure non è così forte da arrivare fino a noi?). E pensare che tutti quelli qui nominati, e molti altri, sono ancora in carriera: addirittura Amato può diventare Presidente della Repubblica e Clarich Presidente della Fondazione! Questo povero Paese non ha speranze di riscatto.

Se 20 anni fa le ottime banche pubbliche italiane non fossero state privatizzate oggi sarebbero, come in passato, ulteriormente ingrassate dalla crisi in atto e tra le più grandi e sane d’Europa. E l’Italia, grazie a loro, sarebbe fuori dalla crisi.

La privatizzazione del Monte è costata alla Città i 20mld che il vecchio Istituto valeva quando fu privatizzato nel 1995. La Fondazione ne valeva anche di più perché oltre al 100% delle azioni della Banca aveva anche altri ricchi cespiti. Dunque oggi alla Città mancano più di 20mld. In realtà la ricchezza distrutta è stata molto più del doppio se si considerano nell’ultimo ventennio i 13mld di aumenti di capitale, i mancati utili e l’inflazione. Ma che bella la gestione privatistica, almeno per quelli che tutti quei miliardi persi hanno invece intascato! (perché negli affari quello che uno perde lo guadagna l’altro).

COME FINIRÀ?

La Città non si riprenderà più se non come placido paesone di provincia ormai precipitato in quel Meridione d’Italia dove nessun riscatto, non solo economico ma neanche culturale, sociale e etico, è possibile come ha tragicamente dimostrato il secolo e mezzo di Unità nazionale.

Allora quale migliore soluzione, di quella di affidare al Clarich, indiretto corresponsabile di questo disastro epocale, la gestione degli spiccioli avanzati al patrimonio del Monte, ossia quei miserabili 400 milioni, che sono rimasti nella Fondazione? Quanto dureranno visto che quelli che sostengono la candidatura di Clarich e che more solito ne determineranno politicamente le decisioni, appartengono alla stessa congrega che fece Mussari presidente della Fondazione e poi anche del Monte?

Si accettano scommesse. 

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