Le logiche del libero mercato non valgono per MPS

di Red
SIENA. Che Moody’s, come del resto S&P e Fitch, siano sempre in ritardo nel certificare lo stato dell’arte delle società quotate, è chiaro da molto tempo a tutto il mondo della finanza mondiale. Peccato che molti investitori siano – loro malgrado -condizionati dai ratings e la riduzione di un titolo a junk ha sempre conseguenze negative: La rabbia di Fabrizio Viola è, quindi, ben comprensibile. Ma a parziale discolpa, va detto che la situazione che vive banca MPS non è del tutto chiara e, per chi è al di fuori dei bizantinismi della politica italiana, piuttosto incomprensibile.
MPS è un istituto di credito che negli ultimi 17 anni è stato gestito dalla politica, formalmente una azienda privata. In quota PD, ma quando serviva ne hanno usato bipartisanamente tutti i partiti coinvolti, e nella rete sono rimasti invischiati sindacati e cittadini. Così, quando la cattiva governance ha fallito, è toccato al potere politico trovare la soluzione per uscire dai guai. E nell’epoca del liberismo e della Comunità europea ciò non può avvenire secondo i criteri di una volta, ma seguendo un iter che accompagni l’evoluzione della crisi europea, che è il contesto a prescindere in cui siamo immersi. Il buco che Antonveneta ha creato alle casse del Monte – sommato ai tappabuchi successivi per mascherare la voragine – è tale che anche in un periodo di espansione dell’economia i nodi sarebbero venuti al pettine. Avendo lo Stato a coprirgli le spalle, oggi MPS è una banca solida, per assurdo che possa sembrare.
Nel mondo anglosassone si ragiona diversamente, per cui Moody’s trova la spazzatura che troverebbe in una banca di casa sua. Qui tremano i dirigenti della banca che si sono tirati fuori dai compromessi, e non quelli coinvolti negli affari sbagliati. I dipendenti che lavorano e fanno funzionare il giocattolo, e non i raccomandati nascosti nella Direzione Generale. I piccoli clienti e non quelli grossi. Chi ha un mutuo con una rata arretrata e non chi ha fidi per 150 milioni ma non paga nemmeno il conto del ristorante di una squadra di calcio. Chi prospera nel paese di Bengodi non vuole fermare il treno in corsa, e non lo fermerà. Tanto Mario Monti, nelle pieghe degli accordi intereuropei con la Bce, ha trovato il meccanismo per fornire gli aiuti di Stato a Rocca Salimbeni, ma senza chiamarli col loro nome perché è vietato. Questo è il primo aspetto del problema. Il secondo riguarda la proprietà della banca. I prestanome senesi sono stati protagonisti in negativo di una stagione giunta ai saldi, un po’ per eccesso di protagonismo, un po’ per aver ubbidito troppo acriticamente agli ordini. In medio stat virtus, e di virtù ne son mancate fin troppe. Si dice che l’ultimo baluardo tecnico della senesità, la limitazione al 4% nel voto assembleare dei soci che non sia la Fondazione, stia per cadere su richiesta addirittura del Ministero dell’Economia. Quello diretto da Vittorio Grilli, che allentando la sua vigilanza sulla banca nella sua posizione di Direttore Generale del Tesoro, ha lasciato scorrere tutte le operazioni generate dall’affare Antonveneta. Senza trovare nulla da contestare, quando tutto era palesemente irregolare, visto che le conseguenze hanno dimostrato che MPS non era tecnicamente in grado di mettere in piedi quella acquisizione del 2007. Non sarebbe necessario; finché ci sarà Mancini ostacoli alla missione Profumo non si leveranno.
Però non si sa mai: meglio sbarazzarsi una volta pertutte di questi senesi, visto che si va al voto comunale, sparirà la Provincia, la Deputazione sarà infine rinnovata, gli sviluppi dei casi giudiziari non potranno beneficiare di rinvii privi di conseguenze negative per gli attori principali (e l’udienza Ampugnano ben si pone in questo contesto) all’infinito. Tutti hanno letto o ascoltato in diretta l’intervento con cui Mancini ha spiegato in Assemblea straordinaria i motivi per cui ha votato favorevolmente agli ordini di Profumo. Non avendo capito nulla dello stanco politichese del presidente della Fondazione – e considerando che le interpretazioni dei commentatori mondiali sono sula stessa lunghezza d’onda – viene l’idea che l’unica spiegazione logica sia che ancora una volta abbia ubbidito agli ordini. A 66 anni la voglia di trovare spazio nell’agone romano potrebbe essere un valido motivo, e si potrebbe tentare il ricongiungimento con Giuseppe Mussari, che a Roma ha messo solide radici, guai giudiziari permettendo.
Che cosa avrà capito Moody’s della realtà senese e italiana di Monte dei Paschi?