La vicenda di Walter Cimino ucciso a 17 anni

di Mario Ascheri
SIENA. Sono stato molto onorato di scrivere qualche paginetta introduttiva al bel libro del giudice Marini per complimentarmi pubblicamente con lui anche fuori Siena, dove il libro avrà certamente buona circolazione, e sono stato molto lieto di presentarlo in Aula Magna, alla presenza dell’Autore e dei suoi due validissimi collaboratori Paride Minervini e Carlo Brandini, nella mia nuova qualità di presidente del ricostituito club Unesco di Siena, che ha avuto anni fa la sua bella parte di merito nel riconoscimento del sito di Patrimonio Mondiale per Siena e per la val d’Orcia.
Ci ho tenuto a intervenire in questa veste, perché è noto che l’Unesco si propone di coltivare la cultura della pace attraverso la diffusione della cultura intesa nel suo senso più lato, naturalmente anche storica, ma pure artistica e musicale, ad esempio. A marzo, a Lucca e Firenze, verrà appunto studiata e discussa dall’Unesco l’etica dell’arte e della musica…
Quanto alla pace – lo sappiamo bene noi italiani – non è solo un bene da raggiungere nei rapporti tra i popoli, ma anche all’interno dei popoli. La sala del Lorenzetti a palazzo pubblico detta del Buongoverno oggi, era anticamente detta la sala della guerra e della pace. E pensava, badate, alla guerra e alla pace non tra i popoli ma entro il popolo. Il ‘pacifico stato’ della città era il primo valore… poi veniva il resto, e spesso era appunto la guerra, ma fuori, e meglio se con Firenze.
Ma torniamo al Lorenzetti. Il suo messaggio sempre valido è che la pace regna se la città è governata dall’uguaglianza e dalla giustizia, mentre la guerra, in particolare la peggiore, quella civile, che lascia rovine non solo materiali ma ideali, nella memoria più profonda dei popoli, è il portato dell’ingiustizia, personificata dal Tiranno.
La trasposizione di quel messaggio nell’impegno civile con cui il giudice Marini ha svolto la sua inchiesta mi è sembrata indubbia. Per ridare pace, per curare i vulnera nella memoria di un popolo bisogna rendere giustizia, e per realizzarla bisogna chiarire fino in fondo i dubbi, il non detto, le ambiguità. Come su questa vicenda della quale io avevo appreso soprattutto grazie ad Antonio Nardi (l’amico che purtroppo non è più tra noi) e Danilo Giachetti .
Che il fascismo fosse dittatura, la tirannide del Buongoverno, apportatore di violenza e di morte, Marini lo dà per scontato.
Ma dà per scontato qualcosa di più, e che scontato non è sempre. La pace recuperata con la libertà dopo la tirannide non può e non deve nascondere niente sotto i tappeti, come si ama dire oggi. La pace è forte se c’è rispetto della verità, se non si ha paura della verità.
E allora bisogna esser pronti anche ad ammettere, se viene documentato come lo è stato in questo libro, che non tutti coloro che formalmente militarono dalla parte giusta nella guerra anche civile che insanguinò il nostro Paese furono dei veri combattenti della libertà, come i tanti finché possibile rispettosi dei diritti umani dei loro pur temibili e spesso disumani avversari.
Il leader del gruppetto di appartenenti alla guardia civica senese costituita presso il Comune di Siena per garantire l’ordine fino alla Liberazione, quel leader che con il suo gruppetto perseguitò Walter Cimino in modo bestiale fino all’esecuzione in via del Mandorlo fuori porta Tufi con il concorso d’un gappista fiorentino, quel gruppetto non ha disonorato la Resistenza e i combattenti leali per la libertà, perché si è posto moralmente e politicamente fuori del mondo dei valori della Resistenza.
Con le esecuzioni sommarie non necessarie (come in operazioni belliche), a volte addirittura contro persone che non ebbero responsabilità politiche negli atti repressivi del fascismo, si dava sfogo a vendette, personali o di gruppo, ma non si faceva giustizia. Una difesa oggi di tutto quel che accadde allora, una difesa che non sappia distinguere non ha senso, come non l’avrebbe la condanna globale.
Troppo facile e semplicistico fare tutti buoni da una parte e tutti cattivi dall’altra. Giudicare un caso concreto come ha fatto il proc. Marini non è diversissimo dal giudicare più in generale, come fa sempre il legislatore e lo storico. Bisogna saper distinguere per non fare disastri, per non provocare altre lacerazioni o conseguenze negative. Prudenza, equilibrio, e anche magnanimità sono necessarie nel giudicare da storici come da giudici e legislatori, come insegna il Buongoverno.
Marini s’è appassionato al caso perché ne ha rilevato l’enormità, l’inciviltà, la barbarie? Basta per dire che non è stato equilibrato? E si è invece equilibrati giustificando l’omicidio perché il ragazzo diciassettenne, piombato per poche ore in città dal fronte, ebbe la leggerezza di girare con la divisa della Decima Mas in città? Ucciso per una provocazione? Per dare un esempio? Non torna, perché Cimino non fu freddato per strada coram populo o quasi per sbaglio come avvenne a una vittima di una violenza alla caserma di S. Francesco, insomma come avvenne per altri fascisti in quell’autunno rosso di sangue della dittatura. No, Walter fu martirizzato già quando tenuto in prigione in modo privato, si badi, proprio perché non c’era un motivo reale per trattenerlo da parte di appartenenti alla guardia civica che facessero il loro dovere.
Marini ha trovato toccanti testimonianze che si trattava di un bravo ragazzo, di modi civili, sportivo, stimato dal suo parroco di Valli. Perché indagando non si doveva imparare ad apprezzare quel ragazzo e a rimpiangerne ancor più la tragica fine? Chi dubita della opportunità dell’indagine di Marini deve riflettere su queste domande: non è possibile occuparsi oggi per motivi umanitari di chi sta dalla parte sbagliata in un conflitto? Non è possibile riaprire oggi casi giudiziari eclatanti anche lontani la cui soluzione può riuscire poco gradita alla parte vincente? E’ giusto che a distanza di quasi 70 anni la differente posizione ideologica possa essere rimproverata a chi fu vittima di una violenza ingiusta? E’ giusto che venga quasi invocata per giustificata la barbarie del violento omicida? Dire che allora bastava la leggerezza di vestire la divisa per giustificare l’omicidio, non è come dire oggi (è succeso, ahimè!) per fare un esempio limite, che il pantalone attillato giustifica lo stupro?
Il libro non si legge solo d’un soffio per il ritmo e la scioltezza della scrittura o perché attanaglia e angoscia per la bestialità di quella gente che per tanto tempo ha girato indisturbata per queste strade, anche qua sotto fino a pochi anni fa.
Il libro ci dice anche dei pericoli che corriamo per gli estremismi ideologici, per la mancanza di equilibrio, per la visione manichea della storia, quella stessa che per tanto tempo ha fatto ignorare le grandi pagine di storia di un Renzo De Felice, faziosamente accusato di filo-fascismo, oppure ha sminuito e accusato le inchieste di un Giampaolo Pansa, che peraltro ha anche abitato per qualche anno a un passo dal luogo della vile carcerazione di Walter Cimino, o a suo tempo ‘aggredì’ uno studioso della Resistenza come Claudio Pavone – non a caso difeso da un grande combattente della libertà come Vittorio Foa.
Ma torniamo al libro, che ha già suscitato nuove indagini, giuste precisazioni nei tanti articoli apparsi in questo mese e poco più dalla comparsa. Altri approfondimenti perverranno senz’altro: Marini ha fatto un lavoro funzionale al suo scopo, rendere giustizia, non fare lo storico della fine della guerra. Altre reazioni al libro invece testimoniano purtroppo di nodi irrisolti della nostra cultura, di grovigli sempre ambigui in quella che dovrebbe essere la nostra civiltà e cultura della libertà.
Ma, in un momento come questo, così duro per la città, non si può polemizzare. Dobbiamo stringerci attorno a chi come Marini ci indica la prospettiva della speranza: che si faccia giustizia dei fatti gravi, lesivi d’una comunità civile come la nostra, di questo come dei tanti altri che oggi ci turbano tutti. La giustizia deve chiudere troppi problemi che ci angustiano tutti. L’indagine del proc. Marini ci dà speranza e intorno a questo augurio dobbiamo oggi unirci tutti.