Piccini: "Emergono nodi profondi che meritano un’analisi critica"

di Pierluigi Piccini
SIENA. L’intervista a Stefano Di Bello sul futuro delle Papesse appare, a una prima lettura, come un racconto di entusiasmo e rinascita. Ma, dietro la superficie celebrativa, emergono nodi più profondi che meritano un’analisi critica: dal linguaggio del marketing alla natura ibrida di un modello che mette in tensione cultura e business.
Parole come “ripartenza”, “opportunità”, “co-marketing”, “tessera del curioso” dominano la narrazione. La cultura viene descritta come prodotto, il pubblico come target. Persino la definizione dei visitatori come “curiosi” riduce la fruizione a un consumo episodico, dimenticando la dimensione educativa e trasformativa dell’arte.
Di Bello riconosce che “è difficilissimo” fare arte come privati e che servono investimenti forti in comunicazione. In altri termini: senza una spinta di marketing, l’offerta non riesce a reggersi da sola.
Qui sorgono domande cruciali: il palazzo è davvero uno spazio artistico vitale o un contenitore da riempire? La programmazione risponde a criteri culturali o a logiche di mercato? Cosa accadrà quando l’effetto novità svanirà?
Opera Laboratori ha acquistato il palazzo, ma le Papesse restano simbolo identitario della città. La gestione privata, senza un chiaro quadro di controllo democratico, apre un tema politico: come garantire che un bene ex-pubblico non diventi terreno esclusivo di decisioni aziendali? La dichiarata “offerta alla città” rischia di celare una dinamica asimmetrica: il privato decide, la comunità subisce.
Quello proposto è un modello ibrido, che mantiene le sembianze del servizio pubblico, ma opera secondo logiche commerciali. I rischi sono evidenti: dipendenza dal mercato, con scelte curatoriali dettate più dai numeri che dal valore culturale (esemplare la proroga della mostra di Hugo Pratt per intercettare il pubblico di Lucca Comics); gentrificazione culturale, con abbonamenti premium e formule esclusive, che rischiano di trasformare lo spazio in un club elitario; volatilità progettuale, come dimostrano i 18 anni di chiusura passati, che segnalano la fragilità di un modello troppo legato a fattori esterni.
La programmazione annunciata privilegia nomi noti – Julio Le Parc, Hugo Pratt, Armando Testa – senza una visione curatoriale forte. È un approccio eclettico che parla più la lingua dell’intrattenimento che della ricerca, sacrificando la costruzione di un’identità specifica per Siena. Le partnership con istituti locali (Siena Art Institute, progetti carcerari, contrade) appaiono più come operazioni di legittimazione sociale che come reali sinergie culturali. L’asimmetria è evidente: Opera Laboratori si presenta come generoso interlocutore, ma detta i termini del dialogo.
Il caso Papesse non è isolato. Da Palazzo Grassi a Venezia a certi spazi rigenerati in Lombardia, il modello della privatizzazione culturale “vestita” da servizio pubblico è sempre più diffuso. Se il successo viene misurato solo in biglietti venduti e in ritorni mediatici, rischiamo di legittimare un paradigma che impoverisce la funzione sociale della cultura.
Il vero banco di prova non sarà il numero di visitatori del primo anno, ma la capacità delle Papesse di costruire un rapporto autentico con la comunità senese. Cultura non come consumo rapido, ma come crescita collettiva. Arte non solo da guardare, ma da vivere.
Se il dibattito resta confinato ai bollettini di vittoria commerciale, perderemo l’occasione di domandarci cosa significhi oggi fare cultura in Italia. E questo, più dei biglietti venduti, rappresenterebbe il vero impoverimento del nostro patrimonio. Come se Siena avesse bisogno di altri visitatori e non di qualità.