di Giulia Tacchetti
SIENA. L’ultima rappresentazione a Siena (5 dicembre) de “La vita davanti a sé” di Silvio Orlando forse è stata la più sentita e commovente delle tre in programma. Trovare un difetto alla performance di Silvio Orlando, unico attore, che recita per un’ora e mezza senza interruzione, è veramente difficile. Dà voce ad un bambino di dieci anni, Momò, che vive nella casa di Madame Rosa, vecchia prostituta ebrea, che ha conosciuto i campi di concentramento e che ora alleva dietro pagamento i figli delle ”puttane”. Con questa parola duramente realistica Momò-Orlando, sempre alla ricerca della madre, descrive il mondo che lo circonda, ma è il tono che colpisce, mai rancoroso o astioso. Davanti ai suoi occhi attenti e meravigliati sfila l’umanità che anima le banlieues parigine, il quartiere è Bellaville: trans, drogati, magnaccia. Il dott. Katz cura Madame Rosa e minaccia di portarla in ospedale, ma lei ne ha paura “perché i medici mi vogliono fare vivere per forza”; Madame Lola, travestito del IV piano, da boxeur senegalese è divenuto prostituta; Nadine, doppiatrice di film, potrebbe diventare la madre tanto desiderata. Orlando parla e si muove con grande professionalità attoriale. La voce anima i sentimenti, pacati, carichi di affetto nei confronti di Madame Rosa. E’ un raccontare che ci prende per mano e con toni pazienti, ma vivaci ed ironici, ci porta per le strade del quartiere , ci fa parlare con i bottegai, le persone che Momò incontra. Nello squallore dilagante, in mezzo a pericoli indicibili, questo bambino si muove con abilità, e torna sempre a casa dalla vecchia prostituta, protettivo e attento alla sua salute. Incredibile il gioco delle parti rovesciate: il bambino si preoccupa della salute della vecchia e la protegge, Silvio Orlando diventa il bambino Momò, senza sbavature o indulgenze sentimentali. Ci colpiscono nella parte finale, quando l’anziana prostituta ormai alla fine si sveglia da una sorta di coma e, pensando di essere giovane, si alza nuda dal letto e cerca di vestirsi per andare a battere il marciapiede, le parole ironiche di Momò, che descrivono la sua nudità orribile eppure oseremmo dire poetica nella sua mostruosità “Non avevo mai visto niente di così…”. Madame Rosa diventa una creatura da sogno, madre affettuosa e migliore di altri.
Silvio Orlando, regista della rappresentazione, ha ridotto il romanzo di Romain Gary (Emile Ajar), pubblicato nel 1975 e vincitore nello stesso anno del premio Goncourt. Nel 1977 è stato trasposto nell’omonimo film di Moshè Mizarhi con Simone Signoret e, di recente, su Netflix abbiamo visto un’altra versione sceneggiata da Ugo Chiti ed Edoardo Ponti, regista, con Sophia Loren. Come spesso accade, cinema e teatro sono due modi diversi di rappresentare lo stesso testo; difficile fare paragoni tra le intense rappresentazioni cinematografiche e l’intesa diretta che si stabilisce in teatro tra attori e pubblico. Anche l’immediato richiamo ad Oliver Twist di Charles Dickens ha breve durata, in quanto siamo lontani dalle lacrime e pietismi verso gli orfanelli che vivono nella dura realtà senza guida, conoscendone le brutture e le cattiverie del genere umano.
Nel teatro aleggia la commozione, la poesia, che culmina con il ricordo di Momò che veglia per giorni Madame Rosa morta, cospargendo il corpo di profumo ed il viso dei colori che lei usava per il suo mestiere. Lo spettacolo si chiude con un’espressione dal significato universale “Bisogna voler bene”.
Il testo, per quanto risalente a più di quaranta fa, è incredibilmente attuale per le storie di un quartiere multietnico, in cui convivono culture diverse, come quella ebrea ed araba. Tema evidenziato anche dalla musica, che durante la rappresentazione interviene a sottolineare i punti culminanti della narrazione: Simone Campa, chitarra e percussioni, Gianni Denitto, clarinetto, Maurizio Pala, fisarmonica e sax, Kaw Sissoko, kora e djembe. Silvio Orlando si cimenta anche nel flauto, offrendoci con grande generosità un piccolo concerto alla termine dello spettacolo.






