
SIENA. Da Pierluigi Piccini riceviamo e pubblichiamo.
“Ho imparato che, quando si alza il drappellone, le parole contano quasi quanto le pennellate. Eppure, di fronte al Cencio di Roberto Manganelli, il sindaco Nicoletta Fabio ha scelto la via più facile: un florilegio di “valori”, “libertà”, “crescita” e altre astrazioni che scivolano addosso. Pronunciare “libertà di conoscere e di crescere” senza indicare dove, come e per chi non significa celebrare Siena: significa sorvolare su ciò che la città davvero chiede oggi – lavoro, università che trattengano i giovani, coraggio di rinnovarsi.
Mi ha colpito soprattutto il riferimento agli Intronati: la pietra sorretta dagli amorini c’è, ma trasformarla in slogan sulla conoscenza è un esercizio d’accademia. La cultura non è un soprammobile da citare per far colpo: serve a scavare, a dare spine alle cerimonie, non zucchero.
Il simbolo dell’Accademia degli Intronati – la pietra sorretta da amorini – non è un’immagine qualsiasi. Raffigura una pesante pietra sollevata con leggerezza da figure giocose, a indicare che anche le cose più gravi (la conoscenza, l’autorità, il sapere) possono essere trattate con leggerezza, con spirito, senza rinunciare alla profondità. È una lezione rinascimentale che parla del rapporto tra gioco e intelletto, tra gravità e ironia.
“Gravi come la pietra, ma sollevati dal piacere dell’ingegno.” Questo è il cuore del simbolo, e dell’intera poetica degli Intronati, che non a caso nascono come accademia teatrale e satirica, capace di dire verità scomode sotto forma di scherzo.
Ora, usare quel simbolo per parlare genericamente di “libertà di conoscere e di crescere” è un cortocircuito. Perché quella pietra non è un monumento alla libertà astratta: è un invito a praticare l’intelligenza come esercizio di leggerezza critica, a usare l’ironia per sfidare il potere, le consuetudini, le certezze.
Identica sensazione quando Fabio ha ripetuto che il Palio è “senese nella forma, nei colori, nel senso più profondo”. Grazie, lo sapevamo. Il punto è un altro: Manganelli ci consegna un drappellone che non si limita a ribadire l’identità, la mette in discussione. Un cavallo inquieto accarezzato da mani febbrili, un Palazzo Pubblico che osserva, ma non domina, un cielo che non concede trionfi. È un invito a rallentare, a leggere i dettagli, a tacere persino.
Ed ecco la frattura: l’opera suggerisce silenzio, la politica risponde con un nastro registrato. Parlare di “libertà” a Siena, oggi, dovrebbe significare chiedersi che fine hanno fatto i nostri studenti dopo la laurea, come rafforzare il ruolo culturale della città, perché le contrade faticano a comprendere i cambiamenti. Chiedersi come tradurre in azioni – non in aggettivi – quel “sapere” di cui ci riempiamo la bocca. Invece il discorso istituzionale si rifugia nel rassicurante, convincendo solo chi è già convinto.
Credo che il cerimoniale non sia una gabbia: è un trampolino, se lo si usa bene. Avrei voluto sentire un sindaco che dice: “Questo Cencio mi spiazza, non lo capisco fino in fondo, e va bene così: racconta un Palio che sa ancora interrogarci.” Avrei voluto che ci sollecitasse a trovare, dentro quel satinobro polveroso, la fatica di una città che stringe i denti, la bellezza di Piazza in un giorno d’estate, la contraddizione di un rito antico che pretende di restare vivo.
Invece ci siamo accontentati di parole perfette per un dépliant. Ma la Piazza, lo sappiamo, non si addomestica con i dépliant. Serve la schiena dritta, serve il coraggio di dire che l’identità, se non la metti alla prova, muore di retorica. Oggi il drappellone ce lo urla con un sussurro; qualcuno, dal microfono, avrebbe potuto accorgersene”.
Foto di Roberto Bassan