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Mps: storia di un soggetto divenuto oggetto

di Pierluigi Piccini

SIENA. La vicenda del Monte dei Paschi di Siena non è solo la storia di una crisi bancaria. È il punto di rottura di un’intera costruzione politica, sociale e identitaria che per decenni ha sorretto un modello di potere apparentemente solido, ma in realtà fragile e autoriferito. A Siena, il Monte era più di un istituto di credito: era un simbolo civico, un attore pubblico, un “bene comune”, affidato alla gestione di élite tecniche e politiche locali. Ed è proprio questo intreccio – tra economia e appartenenza, tra consenso e gestione – che ha reso la crisi tanto profonda.

L’acquisizione di Banca Antonveneta nel 2007, pagata a caro prezzo e con modalità imprudenti, non è stata un semplice errore di valutazione. È stata la rottura di una strategia consolidata: quella del polo aggregante, promossa e condivisa anche dal presidente Luigi Spaventa, che mirava a rafforzare MPS con operazioni compatibili con la sua struttura e capaci di preservarne autonomia e solidità. La nuova strategia fu invece imposta dall’alto e accettata senza battere ciglio a Siena. Si puntò inizialmente all’acquisizione della BNL, e successivamente all’Istituto San Paolo. Quando entrambe le operazioni sfumarono, i vertici dell’epoca – bancari e politici, locali e nazionali – decisero di puntare tutto sull’acquisto della Banca Antonveneta, un’operazione funzionale alla sistemazione del panorama finanziario italiano, più che al rafforzamento della banca senese.

È importante distinguere questa fase da quella precedente, a cavallo tra la fine degli anni ’90 e i primi Duemila, in cui la politica italiana – da Amato a Bassanini, da Rutelli a Fazio – aveva cercato di costruire una vera “piazza finanziaria romana”, autonoma rispetto al potere milanese. Fu il tempo del Banco di Roma, di Geronzi, della spinta a centralizzare il potere economico nella capitale. Ma quel progetto naufragò, lasciando il sistema italiano privo di un baricentro.

Proprio in quegli anni, a Siena, si stava cercando di costruire un progetto alternativo: una piazza finanziaria dell’Italia centrale, capace di mettere in rete Toscana, Umbria, Marche e parte dell’Emilia Romagna. Non era solo un’idea tecnica o amministrativa, ma una visione strategica forte, che si proponeva come terza via tra il potere romano e il predominio bancario del Nord. Un disegno che puntava a valorizzare il surplus finanziario, il sistema universitario diffuso, il capitale umano e produttivo dei territori, rimettendoli al servizio della piccola e media impresa, dei ceti medi, dell’innovazione decentrata.

Questo progetto fu ostacolato a livello nazionale dalle stesse figure che guidavano il disegno romano, ma anche a livello locale da settori della cooperazione alimentare ed edilizia e da parte dell’imprenditoria, che non vollero – o non seppero – coglierne la portata. Lo scontro fu politico, culturale e strategico, ma venne ridotto a faida personale da chi ne temeva le implicazioni. Ancora oggi si cerca di far passare quell’opposizione come un conflitto personale, ma in realtà si trattò di una contrapposizione profonda tra modelli alternativi di sviluppo e governo dell’economia.

La sinistra, egemone nel Centro Italia in quegli anni, non colse questa sfida. Mancò una lettura autonoma delle trasformazioni in corso, e si preferì spesso una logica di gestione dell’esistente a una vera capacità di visione. Quell’incomprensione avrà un prezzo: il progressivo sgretolamento del consenso nei territori, accompagnato dalla crisi della rappresentanza e da una perdita di rapporto con le forze produttive reali.

L’operazione Antonveneta, nel 2007–2008, avviene invece in un contesto radicalmente diverso: quello della finanza globalizzata, in cui la politica ha ormai perso la capacità di orientare attivamente il sistema bancario e si limita a subire dinamiche decise altrove – nelle grandi banche d’affari, nei board stranieri, dentro logiche speculative e post-nazionali. Antonveneta, passata da ABN AMRO a Santander e rivenduta in poche settimane a MPS con una plusvalenza ingiustificata, è l’emblema di questo capitalismo bancario opaco, in cui il Monte diventa un tassello manovrabile.

In questo nuovo scenario, MPS è usato per riequilibrare i pezzi del sistema italiano, disarticolato dalla crisi del progetto romano e dal controllo straniero di alcune banche strategiche. Il Monte non viene scelto per le sue forze, ma perché è disponibile, esposto, gestito da un vertice debole e privo di sponde critiche nel territorio. L’acquisizione, imposta e accettata senza reale confronto, si inserisce in una fase in cui la banca senese diventa il punto debole di un intero sistema in transizione, non più nazionale ma senza vera regia.

Né la Fondazione MPS né la politica locale – allora in gran parte coincidente con il nascente Partito Democratico – possono essere considerate semplici vittime. Seppur divisa al suo interno, la Fondazione deteneva il 51% del capitale della banca, e le sue scelte furono il riflesso di una governance permeata da logiche di appartenenza, più che da valutazioni strategiche indipendenti. Il problema non fu solo tecnico: fu l’assenza di un dissenso pubblico efficace, il conformismo delle élite cittadine, la rinuncia a esercitare un controllo critico sulle scelte del management.

Quella che sembrava una forza – l’unità del sistema senese – si è rivelata un limite. Il legame tra la città, la sua banca e la politica è diventato una trappola. Quando il sistema ha cominciato a vacillare, nessuno ha avuto la forza – o il coraggio – di fermare il corso degli eventi. Oggi Siena ne paga il prezzo: non solo in termini economici, ma anche in termini di fiducia collettiva, di prospettiva civica, di immaginazione del futuro.

Comprendere questa vicenda significa anche capire un passaggio cruciale della storia italiana recente, in cui territori un tempo centrali – come Siena – sono stati marginalizzati, e in cui le istituzioni politiche hanno smarrito ogni capacità di guidare processi economici complessi. La crisi del Monte non è stata solo una sconfitta locale, ma una tappa decisiva nella disarticolazione del sistema bancario nazionale, nell’erosione del rapporto tra finanza e territorio, nella fine della politica come luogo della decisione.

Ma il disegno di una piazza finanziaria romana da togliere ai francesi (Mediobanca, Generali) non è mai davvero tramontato. Ha solo cambiato protagonisti e strategie. Se un tempo era Geronzi a tenerne le redini, oggi resta in campo una figura come Francesco Gaetano Caltagirone, con una rete di interessi ben posizionati tra assicurazioni, infrastrutture, media e istituzioni finanziarie. È in questo quadro che si deve leggere anche l’endorsement dell’attuale governo su MPS, non solo come operazione tecnica, ma come tassello di una più ampia volontà di riportare leve strategiche sotto un controllo politico e geografico centralizzato, romano, anche a costo di forzare equilibri di mercato e logiche territoriali.

Siena, in questo scenario, resta ancora una volta oggetto e non soggetto. La sfida, per chi crede ancora nel valore delle autonomie e nel rapporto tra istituzioni e comunità, è tornare a riflettere su come costruire un sistema finanziario pluralista, responsabile, connesso ai territori, che non ripeta gli errori del passato – ma non li consegni neppure all’oblio.

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