di Pierluigi Piccini
SIENA. Ho letto con grande interesse l’intervista di Piero Maranghi, che intreccia la sua storia personale con quella di Mediobanca e, più in generale, con il destino di una certa Milano — quella dove cultura, industria e finanza convivevano in un equilibrio raffinato e discreto. È un racconto che tocca corde profonde: non solo per la forza umana del protagonista, ma perché, tra le righe, descrive la fine di un mondo e l’inizio di un altro.
Maranghi, con lucidità e amarezza, osserva che l’operazione che ha portato MPS a conquistare Mediobanca — formalmente un atto di mercato — non sarebbe mai avvenuta senza la spinta politica di Palazzo Chigi. È una frase che dice molto più di quanto sembri.
Il governo, infatti, non si è limitato a fare da spettatore: ha agito da protagonista. La destra oggi al potere non si accontenta di orientare la politica economica, ma interviene direttamente nei processi di concentrazione del sistema finanziario, rivendicando il diritto di costruire un “polo nazionale” sotto regia politica.
È un’idea che rompe con la tradizione liberale e tecnocratica del secondo dopoguerra — quella di Enrico Cuccia e di Vincenzo Maranghi — che aveva fatto di Mediobanca un luogo di autonomia e di mediazione tra capitale e industria. Il potere, allora, non si esibiva: operava in silenzio, con la forza della competenza e della reputazione.
Oggi, invece, l’intervento politico è diretto, visibile, rivendicato. Si parla di mercato, ma si agisce da Stato. Si invoca la sovranità, ma si occupano i gangli dell’economia con la stessa logica con cui si occupano gli enti pubblici e le fondazioni culturali.
In questo quadro, colpisce il silenzio della sinistra. Nessuna riflessione, nessuna presa di posizione, nessun dibattito sul significato di un’operazione che segna una torsione profonda del rapporto tra finanza e democrazia. Come ricorda lo stesso Maranghi, soltanto Pierluigi Bersani ha avuto il coraggio di dire che il problema non è chi compra chi, ma chi decide per conto di chi.
La sinistra, che pure aveva costruito nel tempo una propria cultura economica, oggi sembra priva di un linguaggio con cui leggere la finanza. È come se si fosse rassegnata a un ruolo marginale, incapace di difendere il principio di autonomia e di responsabilità che dovrebbe valere anche nel sistema bancario.
L’operazione MPS-Mediobanca segna dunque la chiusura di una stagione. La “finanza tecnica” milanese — autonoma, riservata, cosmopolita — cede il passo a una “finanza politica”, nazionale, guidata da logiche di appartenenza. Il rischio non è soltanto la concentrazione di potere economico, ma la perdita di cultura, di equilibrio, di misura.
Mediobanca non era solo una banca: era una scuola, un laboratorio, un codice etico. In quel mondo, si sbagliava “da professionisti”, come dice Maranghi citando Paolo Conte: con rigore, senza clamore, con il senso della responsabilità.
Oggi la scena è diversa. La visibilità sostituisce la competenza, la lealtà sostituisce il merito, l’obbedienza sostituisce la discrezione. E questo non vale solo per la finanza, ma per l’intero sistema istituzionale e culturale del Paese.
Nel paragone che Maranghi azzarda tra la vicenda di Mediobanca e la nomina di Beatrice Venezi alla Fenice — entrambe imposte “dall’alto”, in spregio alle competenze e alle consuetudini — c’è tutto il senso di questa stagione: il potere che non media, ma occupa; che non ascolta, ma impone; che confonde la legittimità con la proprietà.
Da osservatore e da cittadino, credo che questa transizione vada letta con attenzione. Non è solo una questione di banche o di mercato. È una questione di metodo, di etica pubblica, di democrazia economica.
La Mediobanca di Cuccia e di Maranghi padre era un’istituzione che sapeva mediare tra interessi diversi e garantire stabilità al sistema. La nuova Mediobanca rischia di diventare lo specchio di un Paese dove la politica pretende di decidere anche ciò che non conosce, e dove il silenzio dell’opposizione vale come consenso.
In questo, il racconto di Piero Maranghi è prezioso. È il ricordo di un mondo che non c’è più, ma anche un avvertimento: senza autonomia, senza misura e senza cultura, il potere economico diventa dominio.
E quando il potere domina, la libertà comincia a mancare — anche nel linguaggio sobrio e preciso della finanza.






