
di Pierluigi Piccini
All’inizio c’era una persona.
Con qualche idea, un po’ di entusiasmo,
e la speranza — ingenua — di poter cambiare qualcosa.
Poi arrivò la parte.
Bella, lucida, pronta per piacere.
Una parte scritta bene:
con le parole giuste, i sorrisi al posto giusto,
la promessa già impacchettata per l’uso.
La persona cominciò a recitarla, timidamente.
Poi la parte prese forza, tono, applausi.
A un certo punto fu chiaro
che non aveva più bisogno di chi la interpretava.
La parte parlava da sola.
Diceva territorio, futuro, valori, ascolto
con la voce piena di chi non conosce esitazioni.
Non doveva crederci, le bastava dirlo.
E tutti annuivano, sollevati.
Intanto, dentro, la persona si faceva piccola.
Ogni parola, la parte la diceva meglio.
Ogni sorriso, lo restituiva più credibile.
Finché restò solo la parte,
e la persona dietro, come un’ombra che aveva perso la voce.
Di notte non dormiva.
Tornava addosso il peso di tutto ciò che era stato detto senza crederci.
Perché non si poteva dire ciò che si pensava,
ma solo ciò che piaceva a chi ascoltava.
E la parte, su questo, non sbagliava mai.
Arrivarono le elezioni,
e fu lei — la parte — a candidarsi.
La persona restò sul manifesto, appesa al muro,
con il nome in grande e il silenzio sotto.
La parte faceva comizi, firmava programmi,
parlava di sé con passione,
come se credesse davvero a ogni parola.
E vinse.
Naturalmente.
Perché oggi vince chi diventa solo parte.
Chi rinuncia a essere persona.
L’elettorato lo sa, ma finge di crederci.
Finge di scegliere, finge di sperare.
Così il gioco continua,
e l’illusione tiene in piedi la scena.
Da qualche parte, forse,
un ex candidato cammina da solo,
senza più slogan,
guardando la luna
che non ha bisogno di voti per farsi ascoltare.
Come in certe mattine d’aria di vetro,
quando tutto svanisce —
e resta solo il vero,
che non fa rumore.