Piccini: "Il controllo è passato a grandi capitali privati"

di Pierluigi Piccini
SIENA. Il Monte dei Paschi di Siena non è stato soltanto una banca: per secoli è stato un’istituzione civica. Un pilastro che ha sostenuto famiglie, università, cultura, opere pubbliche. Un motore che teneva insieme identità e sviluppo, radicando la città al proprio territorio e, al tempo stesso, aprendola al mondo.
Quando, negli anni Novanta, si scelse la quotazione in Borsa, non si trattò di una privatizzazione: al contrario, fu un’operazione che potrei definire un miracolo politico e finanziario. Eppure, con una superficialità che rasenta l’imbecillità, qualcuno attribuì a quel passaggio – e persino a me personalmente – la responsabilità della crisi successiva del Monte. Niente di più falso. La quotazione non significava consegnare la banca ai privati: al contrario, apriva al mercato, mantenendo intatto il diritto di nomina dei vertici in capo agli enti pubblici. Era un modello unico in Italia, capace di difendere autonomia e radicamento al territorio, proprio mentre molte altre banche si stavano già trasformando, in preda delle logiche finanziarie più aggressive. Da lì nacque un tesoro straordinario: risorse che Siena e il territorio seppero utilizzare per cultura, università, welfare. Non un privilegio, ma un investimento collettivo, capace di generare valore per la comunità intera.
Quel patrimonio, invece di essere custodito e consolidato, venne progressivamente dissipato. La causa non fu un destino inevitabile, ma una combinazione di cattiva governance, errori politici, ambizioni personali.
Il Monte, da strumento di coesione e sviluppo, si trasformò in campo di battaglia tra interessi divergenti. Le scelte compiute in quegli anni – spesso imprudenti, talvolta irresponsabili – produssero una frattura irreparabile: la ricchezza che avrebbe potuto garantire futuro e stabilità si dissolse. Siena si trovò così a pagare due volte: perse la banca come presidio del territorio e, al tempo stesso, vide svanire le risorse che avrebbero potuto sostenere un nuovo sviluppo.
Oggi il Ministero dell’Economia è sceso al 4,863% del capitale. Lo Stato non conta più nulla, e Monte dei Paschi non è più né la banca di Siena né la banca pubblica. Il controllo è passato a grandi capitali privati: Delfin (17,5%), Caltagirone (10,2%), Banco Bpm (3,7%) e altri soggetti finanziari.
Questa è la vera privatizzazione: non quella del passato, ma quella attuale. Allora si apriva al mercato difendendo l’autonomia pubblica; oggi, invece, lo Stato è ridotto a socio irrilevante e il Monte è definitivamente consegnato ai privati. È il segno della rottura di un legame secolare: le decisioni non si prendono più a Siena, ma altrove.
Con l’uscita del Tesoro si chiude davvero un’epoca. Il Monte non è più presidio pubblico, né istituzione civica: è una banca privata, regolata da logiche di profitto e da strategie che poco hanno a che fare con il futuro della città. La conseguenza è chiara: Siena rischia di ridursi a museo a cielo aperto, bella e visitata, ma priva di un motore economico e sociale. Eppure il rischio non è solo economico: è anche culturale e civile.
Le istituzioni locali, le forze sociali e culturali, l’università, l’associazionismo sembrano incapaci di esprimere una visione comune. Non si intravede un progetto in grado di sostituire il ruolo che il Monte ha avuto per secoli. Siena appare smarrita: senza memoria, senza coraggio, senza una strategia che le consenta di costruire un futuro dopo la fine del suo storico pilastro.
Ecco la verità sul Monte: il miracolo tradito e l’unica vera privatizzazione. Un patrimonio costruito con fatica e intelligenza è stato dissipato da una governance miope, da errori politici e da una classe dirigente incapace di custodirlo.