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Direttore responsabile Raffaella Zelia Ruscitto
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Giorno della Memoria a Siena: l’intervento di Massimo Bianchi

Il discorso “Per una riflessione sulla Shoah. Uno sguardo sull’Italia e al caso senese” ha aperto il Consiglio Comunale straordinario questa mattina (26 gennaio)

Riceviamo e pubblichiamo integralmente l’intervento di Massimo Bianchi (Università di Siena) “Per una riflessione sulla Shoah. Uno sguardo sull’Italia e al caso senese” in apertura del Consiglio Comunale straordinario sul “GIORNO DELLA MEMORIA 2024 – In ricordo dello sterminio e delle persecuzioni del popolo ebraico e dei deportati militari e politici italiani nei campi nazisti”.

 

“Buongiorno a tutti, ringrazio in primo luogo il Presidente del Consiglio Comunale di Siena Dott. Davide Ciacci e l’Amministrazione comunale, a partire dalla Signora Sindaco Nicoletta Fabio, per l’invito a tenere questa mattina una relazione nell’ambito del Giorno della Memoria in ricordo dello sterminio e delle persecuzioni del popolo ebraico e dei deportati militari e politici italiani nei campi nazisti. 

Ringrazio anche per darmi la possibilità di ritornare in un’Aula che ho frequentato per oltre quindici anni da diversi punti di osservazione, compreso questo dei banchi della Giunta Comunale e pertanto è per me come un ritorno al passato.  

Parleremo oggi di memoria e la memoria è l’esercizio che abbiamo fatto anche poco fa quando abbiamo ricordato il Consigliere Lucio Pace che è passato da questa Sala del Capitano del Popolo ormai da più di un decennio per ben due mandati, appartenendo anche per molto tempo allo stesso Gruppo consiliare: un Consigliere molto attivo nella vita politica cittadina, proveniente da una realtà in provincia di Palermo ma perfettamente integrato con le problematiche  e le dinamiche locali e che sapeva portare avanti le sue idee con convinzione e passione. Fino agli ultimi anni, e fino a quando la salute glielo ha permesso, è stato promotore e animatore di movimenti civici. Bene ha fatto il presidente Ciacci a chiedere un minuto di raccoglimento e di silenzio per onorarne la memoria, come del resto si dovrebbe sempre fare per tutti coloro che sono passati da questo consesso e hanno dedicato tempo e risorse a questa comunità. 

Secondo alcuni studiosi, le parole “memoria” o “ricordo” sono due termini che ricorrono più frequentemente all’interno dei testi biblici (alcune centinaia di volte), poiché la memoria coincide con la storia; storia alla quale si attribuisce un significato universale e globale, come passaggio dal passato verso il presente e dall’oggi al futuro, attraverso un meccanismo di trasmissione che ha come funzione fondamentale quella di assicurare la sopravvivenza dell’identità di ogni popolo, gruppo, o etnia. 

La memoria, per chi fa il mestiere di studiare e interpretare il passato, è un imperativo morale prima ancora che storico: si dice infatti, a proposito dell’Olocausto, di “ricordare, perché ciò non accada mai più”. 

Affermazione quanto mai vera, specialmente quando si parla di antisemitismo che è alla base dell’Olocausto o della Shoah e ogni tempo, a ben vedere, ha avuto il suo antisemitismo: prima segnato dall’antigiudaismo cristiano, poi cospiratorio e complottista nei momenti di crisi e infine scellerato nella sua forma pseudo-scientifica durante il nazifascismo. Ma anche le ultime grandi crisi, come la pandemia da Covid 19 e l’invasione russa dell’Ucraina, pur non avendo legami diretti con gli Ebrei sono state l’occasione ancora una volta per diffondere discorsi antisemiti. Ricorderemo infatti, in tempo di pandemia, come il complottismo antisemita sostenesse tutto e il contrario di tutto – si andava dal fatto che il virus fosse una cospirazione ebraica, al fatto che fosse diffuso dagli untori ebrei, al fatto che dovesse essere diretto verso gli ebrei – in modo anomalo e del tutto incoerente. È questa una caratteristica dell’antisemitismo, con gli ebrei incolpati di tutto e del contrario di tutto: da nazisti e fascisti erano accusati di essere allo stesso tempo bolscevichi e liberali, conservatori e materialisti. E diventa davvero pericoloso un nemico che assomma in sé simultaneamente tutti i diversi nemici. Non si deve peraltro dimenticare che, per chi lo promuove, l’antisemitismo è assai utile, perché il sistema di odio che lo produce serve a far percepire sicurezza, identità, ed è segno di una simbolica unità contro il nemico esterno. Per i nazifascisti un mondo senza ebrei era necessario per un progetto politico basato sul dominio, sulla violenza e l’esclusione. 

Come ogni anno, alla vigilia della Giornata della Memoria si riaccende il dibattito sull’utilità del 27 gennaio e come sempre occorre ribadire l’importanza storica di evitare la distorsione della Shoah che è una delle manifestazioni dell’antisemitismo contemporaneo. Gli ultimi anni, fra le diverse e varie stagioni della memoria, sono infatti il tempo della minimalizzazione e banalizzazione della Shoah, un atteggiamento ancora più pericoloso – perché subdolo – della negazione. Viceversa, occorre ribadire la centralità e l’importanza di studiare, approfondire e scoprire nuovi frammenti della deportazione e del genocidio nazifascista: un comportamento fondamentale che fa parte della nostra cultura civica e che motiva le ragioni del nostro proiettarci verso il futuro. La Giornata del 27 gennaio è lì a ricordarci che, dopo la distruzione degli ebrei d’Europa, la storia è andata in una nuova, diversa e opposta direzione: si è costruito infatti un pensiero forte sulla discriminazione, sul razzismo e sull’esclusione che ha ispirato la Dichiarazione dei Diritti Umani, il processo di costruzione dell’unità europea e anche la nostra Costituzione. Non ricordare la Shoah, infatti, concorrerebbe a uno svuotamento del “mai più” che le società democratiche hanno dichiarato dopo Auschwitz.               

Quella di oggi è quindi una ricorrenza, ma anche e soprattutto l’occasione per alcune considerazioni, che vorrei in questa sede sinteticamente avanzare. Attualmente uno dei temi dominanti la nostra società è quello delle migrazioni e della conseguente integrazione. Ebbene, a ben guardare, proprio la presenza ebraica in Italia e in Europa costituisce un modello ottimale di integrazione: in particolare in Italia essi giunsero in gran parte provenienti dalla Spagna da cui erano stati espulsi nel 1492 e si stabilirono un po’ dovunque, soprattutto nella “tollerante” Toscana; in particolare essi si inserirono nel mondo del lavoro, ricercando – pur tra ricorrenti episodi di intolleranza e di persecuzione – parità come leali cittadini. Quindi, alla data fatidica del 1938, essi erano da secoli inseriti nella società e nella storia del nostro Paese, contribuendo positivamente, come tanti altri, a creare e a far progredire l’Italia. E ciò in ossequio anche all’etica tipicamente ebraica che dà un peso fondamentale alla attività pratica e all’impegno sociale; sono da ricordare esempi di professioni intellettuali, ma non va dimenticato che questa etica abbraccia ogni forma di attività, anche la più umile (si pensi a tale proposito ai due noti esempi, quello del talmudista Hillel, vissuto nel primo secolo, che esercitava il mestiere di ciabattino, o quello del filosofo Spinoza che si guadagnava da vivere come molitore di lenti). In pratica, per l’etica ebraica, il lavoro era visto e vissuto come strumento di integrazione, come connessione di diritti e di doveri e come attività svolta nell’ambito di regole.  

In particolare, dopo la cosiddetta “emancipazione” del 1848, quando il Regno di Sardegna emancipò gli ebrei piemontesi all’interno di un più ampio processo che si sviluppò in tante altre nazioni con l’estensione di alcuni diritti civili alla popolazione ebraica, come ad esempio il diritto alla cittadinanza, si diffuse così tra gli ebrei italiani un sentimento di gratitudine e di forte impegno per un ulteriore inserimento nella società; essi cercarono cioè una legittimazione come cittadini a pieno titolo, tradottasi anche in una attiva e diretta partecipazione sia al Risorgimento che alla Grande Guerra del 1915/1918; si ricordino a titolo di esempio i casi del Sindaco di Roma Ernesto Nathan e dei presidenti del Consiglio Luigi Luzzatti e Sidney Sonnino. 

Purtroppo, le leggi antiebraiche del 1938 (appena venti anni dopo la fine del primo conflitto mondiale) distrussero quel comune cammino, pacifico e proficuo al tempo stesso, con l’iniqua discriminazione rivolta contro cittadini che, come abbiamo visto, da secoli – in termini sia di diritti che di doveri – erano inseriti nella società e nella storia del nostro Paese. Quel modello di integrazione non venne allora accolto, anzi fu negato e distrutto; ma, pensando all’oggi (e al domani), si può auspicare che l’Europa voglia riproporlo nei confronti dei nuovi arrivati, sia pure con le modifiche necessarie per adeguarlo ai nuovi tempi.

La memoria acquista poi un significato più profondo specialmente quando si è chiamati a realizzare un compito proprio degli storici, ovvero quello di restituire al territorio in cui viviamo le conoscenze e i risultati delle nostre ricerche che, partendo dallo studio delle grandi questioni storiche fondamentali, finiscono poi per declinare nella prospettiva di osservazione della comunità locale. Tenterò quindi nel mio intervento di evidenziare anche alcuni passaggi di come si tradussero a Siena le persecuzioni contro cittadini italiani, rei del solo fatto di professare la fede ebraica.

Alla data del 22 agosto 1938, i 235 ebrei censiti a Siena e provincia risultavano perfettamente integrati nella vita sociale: le famiglie ebree appartenevano in particolare alla media e piccola borghesia, alcune si erano guadagnate un certo prestigio per l’impegno in talune professioni. Indipendentemente dalla loro fede politica, gli ebrei senesi, che avevano partecipato attivamente sia al processo di unificazione che alla prima guerra mondiale, si consideravano italiani a tutti gli effetti e nessuno avrebbe mai immaginato cosa il regime stava preparando per loro. La politica di discriminazione degli ebrei iniziò con la pubblicazione del Manifesto in difesa della razza e proseguì colpendo inizialmente gli ebrei stranieri, molti dei quali erano studenti, i quali non poterono più iscriversi alle scuole italiane. Fu poi la volta degli ebrei italiani, espulsi dalle scuole, dall’insegnamento, dall’esercito, dalle amministrazioni e dalle cariche pubbliche. Anche a Siena i primi a subire le conseguenze di questa politica discriminatoria furono una ventina di studenti ebrei stranieri espulsi dall’Università e rimasti senza possibilità di lavoro. Seguirono poi le espulsioni di ebrei senesi che furono costretti a lasciare le scuole, l’insegnamento, le attività lavorative presso l’amministrazione comunale e il Monte dei Paschi.

Proprio la totale integrazione degli ebrei senesi nella realtà locale rese ancora più assurda ai loro occhi la promulgazione delle leggi razziali e i vari provvedimenti amministrativi che seguiranno per escluderli dalla vita civile. Le leggi razziali provocarono nella comunità ebraica reazioni di vario tipo tra chi si chiuse in sé stesso cercando di adattarsi alle nuove difficoltà, chi invece trovò in questa nuova situazione ragioni per un antifascismo che andava maturando, chi si piegò con la speranza di salvare la propria famiglia. In questo quadro sono da leggere alcune conversioni al cattolicesimo alla ricerca di ogni possibile sostegno nella rete di amicizie e conoscenze con i non ebrei.

Al riguardo c’è da dire che a Siena come nel resto d’Italia numerosi furono i casi di solidarietà verso gli ebrei; in fondo bastava continuare a frequentarli per rendere esplicito il dissenso verso le leggi razziali. Ci fu anche chi, tra i non ebrei, si spinse oltre, assumendo gli ebrei licenziati dalle amministrazioni pubbliche, continuando a servirsi di loro come professionisti o come commercianti, rendendosi disponibili a occultare parte dei loro beni. Da parte delle autorità senesi l’applicazione delle leggi razziali fu in linea con quanto avvenne nel resto del paese anche se le modeste dimensioni della città fecero registrare casi in cui esponenti del potere avvertirono del pericolo imminente, magari perché loro amici, alcuni ebrei senesi. 

Le leggi razziali e la loro applicazione

Il regime a partire dai primi giorni di settembre del 1938 promulgherà tutta una serie di decreti-legge riguardanti gli ebrei italiani e stranieri che poi verranno tramutati in leggi. Nel mese di novembre si avranno due decreti di importanza particolare: il decreto n. 1728 del 17 novembre che rappresenterà il fondamento legislativo di tutti i provvedimenti successivi per la difesa della razza e il n. 1779 del 15 novembre che integrava la prima disposizione sulla scuola in cui si vietava a insegnanti e alunni ebrei di accedere all’insegnamento e di frequentare le scuole di ogni ordine e grado, a esclusione di quelle elementari, purché separati dagli alunni ariani. 

A partire dal dicembre 1938 i Podestà di tutta Italia fanno affiggere un manifesto in cui si ricordava di autodenunciare la propria appartenenza alla razza ebraica presso l’Ufficio di Stato Civile entro novanta giorni pena arresto e ammenda. Nello stesso manifesto, affisso a Siena in data 27 gennaio 1939, si specificavano anche le caratteristiche di coloro che dovevano considerarsi di razza ebraica, primo passo per poi individuare tutti quelli che avrebbero dovuto sottostare a quei provvedimenti che avevano lo scopo ultimo di rendere gli ebrei persone invisibili nella società italiana. 

Espulsioni dal lavoro

Dal dicembre 1938 al dicembre 1942 vennero emanate una serie impressionante di circolari amministrative che imporranno agli ebrei italiani una serie di divieti che emarginavano gli ebrei dalla vita sociale e impedivano loro di lavorare e di mantenere le proprie famiglie. Un elenco dei divieti, ad esempio, prevedeva di essere amministratori o portieri di case abitate da ariani, di esercitare il commercio ambulante, di commerciare in libri, di vendere articoli per bambini, di raccogliere rottami metallici, lana per materassi, oggetti antichi, d’arte e sacri, di gestire scuole da ballo, negozi di noleggio film, agenzie di viaggio e turismo. Altri divieti erano quelli dell’inserimento del proprio nome negli elenchi telefonici, del lavoro negli alberghi, della vendita e detenzione di apparecchi radio. I nomi ebraici di vie vennero rimossi così come le lapidi con gli ebrei illustri. Anche a Siena queste norme furono puntualmente applicate. In città un numero consistente di famiglie era dedito al commercio, stoffe in particolare, ma vi erano dipendenti di enti pubblici, professionisti, un medico chirurgo, un farmacista, un sarto, un impiegato del Monte dei Paschi, alcuni commercianti ambulanti. I primi a essere esentati dal servizio furono un dipendente comunale (Italo Sadun) e un professore universitario Guido Tedeschi. Per essi, come per altri seguirà la drammatica realtà della disoccupazione e della ricerca di un posto di fortuna presso amici disposti ad assumerli magari sotto falso nome. Per i commercianti ci fu il ritiro delle licenze con gravi conseguenze economiche per molte famiglie, anche se in qualche caso ci fu il ricorso – abbastanza frequente, a dire il vero – a prestanome ariani. Ed è bene sottolineare che accanto a eventi di dimensioni catastrofiche quale l’Olocausto, coesisteva, come frutto delle ufficiali normative discriminatorie antiebraiche, una realtà quotidiana più semplice e quasi di routine, che contribuiva anch’essa a creare l’atmosfera di quel tempo difficile. Si trattava di episodi più semplici, che potrebbero essere tutti ricondotti nella categoria che la filosofa Hanna Arendt definiva di “banalità del male”, nel senso di malvagità che colpisce cittadini inermi nella loro normale quotidianità. Aspetti individuali, familiari, scolastici della vita quotidiana degli ebrei italiani, che abbiamo ricordato, come le varie proibizioni di svolgere professioni, di appartenere ad associazioni, di studiare e insegnare, di ricorrere alle cure mediche, ma anche aspetti apparentemente secondari come possedere un apparecchio radio: tutto avveniva entro una apparenza di quasi “normalità” quotidiana, di ordinaria amministrazione frutto di burocratica applicazione di quelle leggi, che pedantemente definivano i destinatari, classificandoli in base a una complessa casistica a seconda della appartenenza religiosa di genitori, ascendenti, affini, ecc… In sintesi, tutto ciò contribuiva a creare una dimensione umana emarginata e vittima di discriminazioni talvolta assurde e incomprensibili, per far sentire i destinatari di quelle norme come minoranza da emarginare dalla società, non più cittadini come gli altri.

Scuole

A Siena si registrarono anche gli effetti a seguito del decreto di espulsione degli ebrei dalle scuole di ogni ordine e grado: decreto che mise ragazzi e insegnanti di fronte a una realtà difficile da accettare e che erano completamente impreparati ad affrontare. 

Per i bambini delle elementari, in assenza di strutture direttamente gestite dalle Comunità, come era il caso di Siena che era una sezione della Comunità israelitica di Firenze, l’unica soluzione possibile era quella di frequentare una ‘sezione speciale per alunni di razza ebraica’ presso la scuola pubblica e molti si ritrovarono quindi relegati negli edifici scolastici della Fortezza Medicea, dove tra l’altro colpiva particolarmente i bambini ebrei il fatto di avere un bagno separato dagli altri coetanei, che si domandavano il perché, ignorando che tra le varie prescrizioni vi era anche il divieto di mescolare “pipì ebraica” con “pipì di pura razza ariana”. Per gli studenti più grandi non rimaneva altro invece che continuare gli studi privatamente.   

Nel caso delle Università, significativa l’espulsione nel 1938 dei docenti di fede ebraica, molto numerosi (circa 900) in proporzione alle dimensioni demografiche, distribuiti fra tutti gli Atenei italiani. Non deve sorprendere che, accanto ad alcune espressioni di sincera indignazione, non mancarono coloro che – sia pure senza esprimerlo pubblicamente – in cuor loro non deprecarono troppo quella inattesa “liberazione” di cattedre che si rendevano disponibili per soddisfare ambizioni di carriera. Ovviamente i provvedimenti investirono anche quegli scienziati che avevano contribuito, negli anni a cavallo fra la fine del diciannovesimo secolo e il primo quarto del ventesimo, a fare dell’Italia un centro di eccellenza a livello mondiale nel campo delle Scienze Matematiche e Fisiche come Vito Volterra, protagonista dell’ascesa della matematica italiana, che fu tra i docenti che non giurarono fedeltà al regime fascista e che quindi dovette lasciare l’insegnamento emigrando prima a Parigi e poi in Spagna; Guido Castelnuovo, uno dei fondatori della moderna teoria del calcolo delle probabilità, che evitò l’onta della espulsione perché già in quiescenza nel 1938. Analogamente discriminati furono i giovani e brillanti fisici Enrico Fermi e Emilio Segre, costretti a emigrare negli Stati Uniti e che, come co-fondatori della moderna fisica nucleare, vinsero ambedue in anni successivi il Premio Nobel per la Fisica. Qualcosa di analogo avvenne anche in Germania, altro centro di eccellenza mondiale nella matematica e fisica, dove fin dall’inizio fu scelta purtroppo non solo l’espulsione ma anche l’eliminazione fisica degli scienziati di fede ebraica. Nell’ateneo senese il caso eclatante fu quello del professor Guido Tedeschi, docente di diritto civile alla Facoltà di Giurisprudenza, prima sospeso e poi allontanato dal servizio in quanto di razza ebraica che fu costretto a rifugiarsi all’università ebraica di Gerusalemme dove rimase fino alla sua morte nel 1992, nonostante la sua riammissione in servizio nel 1944. 

Deportazioni 

E poi il capitolo delle deportazioni che non mancarono neppure a Siena. L’accentuazione delle violenze avvenne dopo l’armistizio, con la presenza massiccia di truppe tedesche in Italia e già dal 21 ottobre 1943 si era diffusa in città la notizia di una imminente persecuzione nazi-fascista e molti ebrei erano fuggiti. Del resto, le persecuzioni erano già in corso a Roma e in altre città e la piccola comunità ebraica era in allarme.

Ne abbiamo testimonianza diretta da un testo di Alba Valech, libro di memorie dell’unica deportata senese sopravvissuta ai lager che racconta il dramma personale e familiare della deportazione. I genitori di Alba, la sorella Morosina e il fratello Ferruccio trovarono infatti la morte nel lager di Auschwitz-Birkenau e con loro altri 11 senesi che nella notte tra il 5 e il 6 novembre 1943 furono prelevati dalle proprie abitazioni.   

Il 6 novembre vennero rinchiusi alla caserma Lamarmora, il 7 novembre furono condotti su mezzi militari a Firenze, poi trasferiti a Bologna e a Fossoli, e la sera del 14 novembre arrivarono ad Auschwitz dove alcuni di loro, dopo la selezione, vennero condotti a Birkenau e uccisi. 

Analogo rastrellamento subì la famiglia Sadun che abitava in viale Cavour ma per fortuna l’intero nucleo familiare si era già trasferito da qualche giorno in campagna presso il parroco di Vignano don Luigi Rosadini e dopo, a causa di una soffiata, in via San Pietro dalla famiglia Cardini-Adami che li tennero nascosti fino alla liberazione di Siena. Il soggiorno, come è facile immaginare, comportò una vera e propria segregazione per non essere scoperti, ma perlomeno potevano dirsi salvi a confronto di quanti finirono nei campi di sterminio. Nel caso del rastrellamento senese del 6 novembre è da segnalare che esso avvenne per opera congiunta di reparti fascisti della RSI e delle truppe tedesche. Si apre così anche una riflessione sulle responsabilità storiche della deportazione che si è soliti additare come responsabilità esclusiva dei nazisti; in molti casi, i regimi fascisti in realtà furono corresponsabili della deportazione.        

Molti ebrei senesi, per fortuna la maggioranza, riuscirono a evitare la cattura e trovarono rifugio presso conoscenti, religiosi o cittadini che, pur rischiando di persona, accettarono di aiutare i perseguitati. Ci furono casi particolari in cui il consiglio di fuggire arrivò direttamente dalle autorità fasciste della città: il che offre un altro spunto di riflessione sul senso di appartenenza della comunità al tessuto sociale cittadino e sul contesto di piccolo centro, dove tutti si conoscono, entro cui maturò il dramma della deportazione. 

Tutto questo induce a riflettere che le discriminazioni originate dalla legislazione del 1938 – da cui tutto ebbe inizio – non solo erano deprecabili e degne di indignazione, come giustamente affermato ed espresso in molte e diverse sedi e occasioni, ma ebbero anche l’effetto pratico e negativo di depauperare l’Italia di valide energie, ereditate da Paesi che ne beneficiarono praticando invece apertura e tolleranza. Possiamo forse trovare una analogia storica nel provvedimento di espulsione del 1492 dalla Spagna che – in nome di una identità nazionalistica basata sulla “purezza del sangue” – distrusse con violenza quella culla di altissima civiltà creata molti anni prima dalla pacifica convivenza culturale tra ebrei, cristiani e islamici. In altre parole, in assenza della identificazione di una “razza italiana” (e tanto meno “ariana”) abbiamo qui uno dei tipici esempi di quel razzismo su base essenzialmente culturale (cioè, di persecuzione contro chi la pensa diversamente) efficacemente definito da un sociologo Etienne Balibar come una sorta di “razzismo senza razza”.

Ma vorrei avviarmi a concludere questo intervento con una nota di positività. Infatti, anche in quei momenti oscuri e di prevalenza della malvagità si verificarono atti di generosità, di aiuto e salvataggio da parte di molti, anche a rischio della loro vita. Erano non ebrei, spesso persone qualsiasi, che ritenevano quasi ovvio compiere atti di solidarietà; non eroi epici, ma eroi “normali” animati da spirito di solidarietà. 

Era quindi giusto e doveroso che i salvati esprimessero, anche in forma ufficiale, la loro gratitudine. Per questo, come molti sanno, il Memoriale della Shoah di Gerusalemme ha istituito, fin dal 1962, un riconoscimento a favore di coloro (non ebrei) che hanno agito in modo eroico, anche a personale rischio e senza interesse personale, per salvare molte vite umane dal genocidio nazifascista in Europa, anche di un solo ebreo (secondo il motto del Talmud che “chi salva una vita, salva il mondo intero”).

L’ onorificenza consiste nella attribuzione del titolo di “Giusto tra le Nazioni” e il conio di una medaglia personalizzata con inciso il nome del salvatore; lo stesso nome è poi scolpito in un monumento eretto accanto al Museo della Shoah. Inoltre – secondo una antica tradizione biblica su come conservare il perenne ricordo di una persona cara – viene piantato un albero nel “Giardino dei Giusti” sulle colline di Gerusalemme. La scelta della Commissione incaricata di individuare i Giusti – presieduta da un giudice della Corte Suprema di Israele e composta da storici, personalità pubbliche, professionisti (tutti a titolo volontario) – esamina le proposte (per lo più avanzate dagli stessi salvati/sopravvissuti) con criteri meticolosi e arriva dopo una lunga procedura, ricercando ogni possibile documentazione e testimonianza.

E’ interessante ribadire che la grande maggioranza di coloro che hanno ricevuto il riconoscimento di “Giusto tra le Nazioni” sono persone semplici, uomini e donne “comuni”; certamente eroi (perché eroico è il gesto di  salvare altri, anche a rischio della propria vita), ma non eroi che hanno compiuto gesta epiche in battaglia, bensì nella vita di tutti i giorni, quasi come episodi normali, semplici e spontanei gesti di solidarietà e di amicizia come risposta a elementari principi morali di solidarietà e di fratellanza; in sintesi, comportandosi semplicemente da esseri umani.

A oggi sono stati riconosciuti oltre 28.000 “Giusti fra le Nazioni”, prevalentemente in 51 Paesi dove maggiore e più lunga è stata la persecuzione degli ebrei, quali Polonia, Olanda, Francia, Ucraina. In Italia, il numero dei “Giusti” è attualmente di circa 766 persone, anche qui in gran parte uomini e donne senza particolari qualifiche e fama; tuttavia, tra loro figurano anche personalità politiche, autorità religiose, personalità della cultura, tra cui il questore di Fiume Giovanni Palatucci, il cardinale Elia Dalla Costa, arcivescovo di Firenze, il cardinale Pietro Palazzini, mons. Giuseppe Nicolini Vescovo di Assisi, il pastore valdese Tullio Vinay, il pastore avventista Daniele Cupertino, militari della Guardia di Finanza e dell’Arma dei Carabinieri, il campione di ciclismo Gino Bartali, e tanti altri.

Permettetemi in questa occasione di menzionare anche altre persone senesi che protessero in vario modo e a vario titolo gli ebrei: il parroco di San Fedele don Gori Savellini che ospitò per qualche tempo cittadini ebrei nascosti nella sua canonica; il carabiniere Giulio Lattanzi (in servizio alla Stazione Carabinieri di Radda in Chianti) che consigliò molte famiglie ebraiche di cercare rifugio presso località più grandi, poiché infatti nei piccoli paesi era più facile notare la presenza di estranei; don Giuseppe Faeti che nascondeva durante il giorno in una stanza segreta attigua alla chiesa di San Martino molti ebrei del vicino ghetto; don Alfredo Braccagni, nella cui casa trovò larga ospitalità il professor Amerigo Nugel; i già ricordati Ludovico, Lidia e Gino Cardini, Ulisse e Ade Adami e non ultima quella Irma Morandini, scomparsa recentemente, che ebbe il coraggio di resistere alle minacce dell’ufficiale delle SS che la minacciava puntandole la pistola alla tempia e di coprire con il suo silenzio il rifugio di una famiglia ebrea salvandola dalla deportazione.

Da rimarcare in questo senso l’opera e il contributo di molti sacerdoti e, più in generale, della Chiesa senese nell’assistenza agli ebrei perseguitati di cui ha lasciato una bella testimonianza diretta nei suoi scritti proprio il Nugel, affermando che “Sotto il simbolo della Croce sempre trovai comprensione affettuosa, sereno conforto, coraggiosa e pur semplice volontà di bene”.

Vorrei infine concludere con le parole di Moshe Bejski, l’ideatore della onorificenza di “Giusto tra le Nazioni”, che definiva sé stesso come “un pescatore di perle che si tuffa nel passato per scoprire un tipo di uomini che nei tempi oscuri del mondo permettono di credere ancora nelle possibilità dell’uomo”. Salvato anche lui dal genocidio, grazie al tedesco Schindler che lo aveva inserito nell’elenco dei nominativi che riuscì a salvare da Auschwitz (in quella “lista” che dà il nome al celebre film), aveva “intuito che la esperienza di un genocidio produce una doppia responsabilità: insieme al dovere di ricordare le vittime, esiste quello di non dimenticare chi ha rischiato la vita per salvarle”, ovvero che “ogni gesto di responsabilità, di resistenza, anche il più piccolo, va difeso con la memoria”. È questa l’eredità maturata da Moshe Bejski e che ha voluto lasciare a tutti noi: e cioè, che “dopo avere attraversato Auschwitz, si comprende assai meglio come ogni essere umano è custode della vita di almeno un altro essere umano”. 

Massimo Bianchi

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