Le difficili convivenze dentro e fuori dal PD

di Enzo Martinelli
SIENA. Proclamarono fin dalla nascita l’unità dei lavoratori, ma da sempre, nel più grande partito della sinistra italiana, massimalisti e riformisti hanno continuato a dividersi. Il più delle volte la questione è stata curata con le “scissioni”, a cominciare da quella storica del 1921, quando a Livorno i comunisti si misero in proprio abbandonando i socialisti. Nel 1948 il PCI per la prima volta superò per consensi il partito di Nenni, conquistando il primato politico nella sinistra.
Da allora sono sempre stati i massimalisti a dar vita a piccoli cespugli collocati alla sinistra del partito egemone, che ha cambiato nome quattro o cinque volte, rifiutando tuttavia di appellarsi “socialista” come è avvenuto in tutta Europa. Eppure per un lungo periodo le due anime “ideali” del partito hanno convissuto nella stessa organizzazione regolata dal “centralismo democratico”, andato però in disuso dopo la caduta del muro di Berlino. Nel terzo millennio l’ultimo tentativo di tenere insieme le due fazioni del PD è stato affidato a Elly Schlein, una persona che viene da “fuori”. Proprio per questa sua provenienza esterna nel dna non dovrebbe avere il vizio congenito di appartenere all’una o all’altra parte. Invece….
La giovane antagonista della Meloni, secondo il mandato ricevuto, dovrebbe “impastare” tutti i soci in un unico plurale soggetto, dove “plurale” sta però lì a certificare la presenza di spiriti diversi. Poiché per competere e sperare di vincere le elezioni in Italia la legge impone la costituzione di coalizioni con altri partiti l’unità interna di indirizzo del PD, perno delle future alleanze, diventa requisito ineludibile per garantire equilibrio e credibilità politica. Analizzando i fatti riportati dalle cronache nazionali e locali si registra però una grande difficoltà della Schlein a gestire l’incarico affidatole sia all’interno del partito sia nei rapporti con i possibili alleati. Le contrastanti votazioni dei parlamentari europei sulle tematiche internazionali, le rarefatte riunioni degli organismi romani del partito, i reiterati commissariamenti delle strutture periferiche, le conflittuali vicende sulle designazioni dei candidati per le elezioni regionali, le continue ribellioni dei cacicchi locali rivelano divisioni che si cumulano con i contrasti con gli altri partiti del cosiddetto campo largo. Insomma, tuttora siamo in presenza di un PD che gode di una salute non dissimile da quella del passato, sempre affetta dallo stesso morbo: la divisione tra le due maggiori correnti.
E a Siena? Nei Comuni della provincia le storiche presenze comunali targate Cgil, Coop, Arci, Uisp, Cia, Confesercenti, Cna oltre ad amministratori locali, in esercizio o in pensione, garantiscono al PD una presenza efficace e tranquilla, anche perché la concorrenza politica è labile e talvolta addirittura assente. Nel capoluogo invece i contrasti interni da una quindicina d’anni permangono laceranti. Non attengono però al riformismo o al movimentismo. Sono riconducibili allo scontro tra la vecchia oligarchia che controlla il partito (ridimensionato) e altri che invano, almeno finora, richiedono discontinuità. I massimalisti duri e puri militano fuori dal PD, hanno una propria lista e accusano i vecchi “compagni” di strada di far combutta con gli avversari nel finto gioco del bipartitismo. Sempre a sinistra del PD ci sono poi i seguaci senesi di Fratojanni e Bonelli, pronti a tutte le intese. Il problema è sul fianco destro del PD. Al momento lì c’è il deserto o… quasi. E senza apporti su quel lato per il PD è difficile recuperare il Comune.