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Direttore responsabile Raffaella Zelia Ruscitto
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Per chi suona la Campana. Una finale orfana di Re Giorgio?

SIENA. Anche Piero Bucchi è uno dei esponenti  più meritevoli del ristretto club degli “impeccabili”. Icona del “bravo coach” che a 50 anni può dirsi orgoglioso di aver lavorato in piazze da scudetto, Treviso, Roma e da ultimo Milano. E sempre col massimo impegno, onestà intellettuale e lealtà, “risultati positivi” come si suol dire in italiano la tanto onorata “winning season” nello slang yankee. Ma in un certo senso è ancora un personaggio in cerca d’autore, e schivo ad assumere ruoli e iniziative che sarebbero apprezzate da tutti. Nello sport italiano esiste solo il concetto del vincente, lo sconfitto è solo un grande fesso. Questo per colpa dei (benedetti-maledetti) imprenditori per i quali lo sport è un’estensione del loro ego ipertrofico, del loro successo. E vi aggiungo forse qualcos’altro: panem et circenses?, vi chiederete? Magari – per rimanere al basket – ipotizzo un secondo fine forse…primario: uno strumento fiscale (di carattere tecnico) per abbattere il reddito d’impresa. Un investimento in pubblicità, in comunicazione soggetto a defiscalizzazione.
Ma tornando al Pierino “poco pierino”, nato all’ombra delle Due Torri bolognesi e lanciato sulla panchina di Rimini,  la fortuna sembra avergli riservato – parlo di risultati di conio pregiato – solo sguardi fugaci, anche se questo però è meglio non  raccontarlo a Teramo. che in questi playoff ha perso nei quarti dalla “Bucchi band” 2 volte a Milano di un punto e col tiro della vittoria.
Il ricordo di una finale persa 1-3 contro la Fortitudo quando, giovane coach, guidava la Benetton è scolorita da 9 anni passati qua e là in un basket consumistico e consumato (e costumato con  i jeans dell’aquila di Armani),  cercando un’occasione per mettere il suo nome nell’albo d’oro dei coach vincitori di uno scudetto. Non sembra proprio il caso di questa finale praticamente utopica, dovendo Milano vincere almeno 4 gare contro una formazione – Siena – sconfitta una sola volta in tutta la stagione,  che ha pure il vantaggio del campo, e 9-0 negli incontri diretti avendo perso con i lombardi l’ultima volta 3 anni fa.
“D’accordo, quelli di Siena – questo il suo felice e ironico argomentare per questa seconda finale di una carriera col 58 per cento di successi – sono tutti bravi, alti, belli  biondi, però non siamo dei pezzenti. Questa finale ce la siamo guadagnata, e abbiamo fatto la nostra bella figura, anche in Eurolega ,perdendo di 3 punti sul campo dell’Olympiakos. che poi è andato alle Final Four”.
Parole sagge, divoro a imbuto ma il problema è sempre la conclusione –  scontata, anzi scontatissima –  di ogni ragionamento riguardante la “sindrome Siena”.
“Sono bravi a conservare lo stesso nucleo, la società lavora bene, ma sarei curioso di smontare un pezzo dell’asse McIntyre-Stonerook. Magari, ne sfili uno e si sente la crepa”.
Gli allenatori, caro Pierino, non son forse pagati anche per trovare la giusta contraria? Bucchi parla di due giocatori eccezionali, i quali  la NBA l’hanno vista però col binocolo, e  pressappoco valevano l’asse di ferro dell’ultima Milano vincente, quella di Mike D’Antoni e Art Kenney. Siccome i Dioscuri senesi non arrivano da Marte, sono esseri umani, vivono i cicli del bioritmo, vedremo dunque con quali armi  “coach Bucchi” proverà sul campo a spezzare questo asse. Di certo, parlare bene degli altri significa flagellare le proprie carni, crearsi psicosi mentali che diventano comode giustificazioni in caso di sconfitta. E che volevate di più?.
In Italia la stagione del conformismo ha raggiunto punte letali per quanto riguarda il basket, e ogni “nuova” finale è cloroformizzata dai luoghi comuni, e ci manca sempre più la capacità mediatica che avevano Bianchini e Peterson e ancor prima Taurisano e naturalmente Cesare Rubini, colui che si definiva “Principe e  padrino. Coaches-tribuni che sapevano trasformare un match in una disfida italiana, manipolando la storia, la geografia, il territorio, l’economia se non addirittura ricorrendo  al genoma dei protagonisti. C’è questo  “nuovo potere” (meglio new deal) , che semplifica troppo con discorsi da management (sua maestà il budget…), che sono manipolazioni di un concetto che riguarda invece lo sport, i giocatori, cioè l’elemento umano,  trascurano quella scienza propria del basket che sono gli schemi. Per cui  lavorando sulle persone si può determinare un rovesciamento di valori come dimostrarono a suo tempo – citiamo solo alcuni esempi, mi scusino Zorzi e Recalcati, Boris Stankovic a Cantù, Nico Messina all’Ignis e più tardi Valerio Bianchini e Dan Peterson, la cui ascia di guerra giace  da quel dì sepolta fra il Giambellino e la Bovisa.
Messe così le cose, tutti sono autorizzati a sparare sul pianista. Una telecronista si  è permessa di abbassare l’interesse, affermando via schermo (o via scherno?..) ,che quest’anno in fondo il vero scudetto è il 2° posto. Alla partita della nazionale a Bologna (dove mi sono divertito) tutti a dirmi che finirà 4-1 solo perché Siena vuole vincere il quarto scudetto sul proprio campo e fare passerella coi propri tifosi.
A questo punto vado a cercarmi nei siti delle scommesse qualche indicazione su questa finale dell’anno primo di Facebook, , e clicco  Betclic, un milione di clienti nonostante il testimonial sia il “funereo” Arrigo Sacchi.  La vittoria senese  nella serie pagherà solo 2 centesimi contro i 13 euro dei milanesi. Per le agenzie di scommesse l  basket è  ormai solo aria fritta, di cui non si campa, e non riesco davvero a spiegarmi come mai, come unico “speaker”  autorizzato a promuovere questa finale,  Pierino Bucchi non abbia  intanto ragionato da sopravvissuto al quale è concesso ogni risultato. E non si sia connesso sulla grande storia di Milano, quando Adolfo Bogoncelli decise di creare un club dal nobile scopo, sensibilizzare nel dopo-guerra la causa di Trieste italiana. E cercare di captare la lunga attesa per questa opportunità, raccontare la non facile ricostruzione e, soprattutto, invitare personalmente a nome dei giocatori, dei tifosi Giorgio Armani a trascurare Betsy, la sua adorata gatta nera, per scendere in campo, dimostrare quel sentimento che ha tenuto celato per tutto uno anno, e dare un segnale  forte alla sua squadra e al basket. Siamo talmente moderni, direbbe forse Re Giorgio, da essere demodè…
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