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“Piazza Salimbeni è istituzione, edificio, monumento…”

Intervento di Stefano Parrini sul possibile "cambio d'uso" della città

SIENA. La prima volta che sono uscito di casa da solo non avevo ancora sei anni. Eravamo appena tornati in centro, dall’immediata periferia, e mia mamma mi chiese di andare a ritirare la spesa dalla lattaia di via della Sapienza. E se mi perdo? piagnucolai. Non ti puoi perdere. Esci dall’arco dei Rossi e vai a destra, trovi una piazza con una statua al centro. Quando sei lì, mettitela alle spalle e scendi po’ una piaggia, poi attento alle macchine, fai quell’altra discesina e subito dietro l’angolo c’è la lattaia.

Andai e tornai in un amen, ma mi soffermai un attimo a guardare quella piazza. Era settembre, una giornata nuvolosa. La luce diffusa dalle nuvole appiattiva quel luogo, ma nel contempo rendeva più fruibili le proporzioni, la profondità del quadrato al centro del quale si ergeva un uomo con lo sguardo austero ma al contempo bonario, in un cangiare di grigi che la rendevano affascinante. Rivista in seguito con la luce di una giornata di sole, le ombre avrebbero ingarbugliato l’armonia severa di quelle costruzioni antichissime. Sarà che il passato te lo immagini sempre con le nuvole. Al mio ritorno chiesi alla mamma il perché di tanto rigore, di tanta austerità, e soprattutto di tanta bellezza. Con lapazienza di una donna che poteva dedicare tutto il tempo necessario ai figli, mamma mi spiegò che a Siena ci sono la Piazza del Campo, simbolo della forza della politica, degli uomini di Stato, e il Duomo, simbolo della forza divina, degli uomini del Clero. Ma tutto questo gira grazie al denaro di Piazza Salimbeni.

Il mio nonno omonimo aveva lavorato lì fino a pochi anni prima. Inutile dire che sono cresciuto con gli aneddoti della vita lavorativa del nonno nelle orecchie. Nonno Stefano non si era portato via dall’ufficio mai niente, neanche un lapis. Nonno Stefano si faceva portare un vassoio di pasta (da casa, fatto dalla moglie, pagato di tasca sua) e tornava a casa quando aveva finito, non quando era l’ora. Nonno Stefano chiamava il suo datore di lavoro “Babbo Monte”, fare qualsiasi opera che andasse contro gli interessi del datore di lavoro era come arrecare un danno alla propria famiglia. Questi sarebbero divenuti i pilastri della mia educazione, ma questo è un altro discorso.

La Piazza è delimitata dal palazzo Spannocchi, in Banchi di Sopra, dal palazzo Tantucci, in via Montanini, e naturalmente dal palazzo Salimbeni, sullo sfondo, che incorpora l’antica chiesa di San Donato. Quattro edifici il cui pregio non posso star qui ad illustrare, non ho la cultura sufficiente per dilungarmi in alcuna descrizione né storica né architettonica, al limite posso osare a dire che formano una delle piazze più belle di Siena (quindi, con presunzione tutta senese, una delle piazze più belle d’Italia e del mondo). Tuttavia ai più curiosi dico che esiste un tomo, “La Sede Storica del Monte dei Paschi di Siena, Vicende Costruttive e Opere d’Arte”, risalente ai tempi in cui la Banca omaggiava i suoi migliori correntisti di interessanti edizioni su tutto ciò che di artistico questa città offre, che parla proprio di piazza Salimbeni. Dire che è interessante è poco. Lo devo aver sfogliato cento volte, ma cento anni fa. E’ giusto per rinfrescarmi la memoria che lo ho aperto di nuovo, in seguito ad una considerazione fresca di poche ore dopo essere passato per la milionesima volta lì davanti.

Tutto sommato il libro è molto tecnico, quindi mi sono limitato a sfogliarlo per la centunesima volta, anche perché mi è bastata l’introduzione: Siena, città del Monte. Riporto un passaggio. Si parla di interconnessione tra socialità e spazi urbani: “La città, quale si rivela nella storia, è il punto di massima concentrazione dell’energia e della cultura di una comunità… perché il tracciato e la forma della città esprimono in modo visibile gli sviluppi della vita associata e perpetuano in una forma stabile gli sviluppi transeunti della storia. La città è il simbolo delle relazioni sociali integrate: essa è la sede del tempio, del mercato, del tribunale, della scuola; con l’aiuto di tali istituzioni ed organismi la sicurezza e la continuità prevalgono per lunghi periodi, mentre edifici, monumenti, testimonianze permanenti arricchiscono la memoria vivente”.

Piazza Salimbeni quindi è al contempo istituzione, edificio, monumento, a permanente testimonianza dell’energia e della cultura della nostra comunità. Piazza Salimbeni è il prodotto del tempo, è la vita degli uomini senesi che si è solidificata attraverso l’arte in una forma durevole, più evidente delle stesse parole scritte, capace di lasciare un’impressione persino in un bambino di meno di sei anni. Essa sfida il tempo, e le generazioni successive a quelle del bambino che fui, riceveranno un imprimatur dalla sola semplice visione di questa piazza. Le stratificazioni temporali non la intaccheranno.  A meno che…

A meno che non intervenga, nel corso della storia di Siena, una generazione di governanti che non abbiano occhi per vedere. Essi potrebbero perdere il senso dei loro avi per la storia fatta pietra, per la cultura fatta arte. Oppure potrebbero in qualche maniera soppiantare, forse con una rivoluzione lenta ed incruenta, quei senesi capaci, come me e tanti altri, di rimanere attoniti davanti a qualche opera simile a piazza Salimbeni. Potrebbero decidere di cambiarne “destinazione d’uso”, consapevolmente o non consapevolmente (si sa, l’intelligenza si misura con la capacità di prevedere le conseguenze di una azione). Magari potrebbero farla diventare un garage a cielo aperto nella loro inettitudine nel gestire le necessità logistiche delle attività lavorative e di chi ne usufruisce.

Oppure si potrebbe decidere di rendere il centro storico un parco tematico, allontanandone i residenti o rendendoli simili ai Pellerossa americani in una riserva, stabilendo un programma culturale che “trae spunto dall’idea della rinascita culturale della città avvenuta dopo il 1348, anno in cui la peste uccise quasi la metà della popolazione, e dopo il quale lo spazio pubblico cittadino fu percepito e usato in un modo nuovo, aprendo la strada al Rinascimento”, sottintendendo quindi la necessità di scacciare i senesi dalla loro città, nella realizzazione di una operazione che in realtà mira ad uno sfruttamento di nuove aree suburbane come, che so, l’Isola d’Arbia, anche se non vi fosse benessere, stabili basi economiche, crisi degli alloggi a giustificare tale scelta politica.

Una generazione di governanti, quindi, con la ferma intenzione di cambiare “destinazione d’uso” alla città, luogo visitato da tutto il mondo per le sue peculiarità, che sono non quelle di un borgo conservato a guisa di “stanza del morto” in cui non si può neanche spolverare per non alterare il ricordo del caro estinto, ma sono quelle di uninsieme di testimonianze architettoniche che mostrano l’impegno plurisecolare di un popolo, di una cultura che si è servita delle arti più eccelse per tramandare per sempre le sue virtù attraverso opere, come piazza Salimbeni, da valorizzare e conservare, e non da usare come smistamento merci, o autorimessa di un albergo.

Ma in sostanza è quello che sta avvenendo: la scelta dell’assessore Alessandro Maggi di chiudere rigorosamente e definitivamente al transito Banchi di Sopra ha avuto queste conseguenze per piazza Salimbeni e strade limitrofe. Taxi merci, corrieri, furgoni che approvvigionano di merce i negozi e residenti, di fatto impediscono che i senesi ed i loro ospiti possano fruire della visione di quelle pietre, che come bosoni di Higgs hanno dato massa e forma all’energia della nostra comunità. A sentire il sindaco, esiste la ferma intenzione di estendere ad altre zone del centro il divieto assoluto di transito: chissà quali altre piazze e strade avranno la stessa sorte della mia piazza Salimbeni.

Stefano Parrini

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