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All’armi siam turisti

Non solo uno sfogo: un vero allarme

di Silvana Biasutti

SIENA. Non so voi, ma io mi ricordo piuttosto bene delle “vacanze intelligenti”, lanciate dall’Espresso, che a quel tempo – ma che tempo era, e dov’eravamo? – era il punto di riferimento di un cluster di persone (un gruppo socioeconomico disomogeneo con consumi e atteggiamento culturali simili), che in quel giornale ritrovava le proprie propensioni e opinioni.

Ripensandoci, cerco di ricordare com’erano le vacanze, prima di diventare intelligenti – un po’ stupidine, magari – e com’eravamo; sarebbe meglio scrivere ‘com’era la gente nei miei dintorni allargati.

Per soccorrermi potrei andare a rileggere qualche ricerca Eurisko del professor Calvi, o di Giampaolo Fabris, o di Enrico Finzi, oppure qualche annuario Esomar, per dare una sbirciata ai consumi in Europa – trent’anni orsono – e vedere di nascosto l’effetto che fa.

Scriverei in modo molto ben documentato, ma meno empatico: in verità preferisco attingere al pozzo personale, essere meno scientifica (ma lo scrivo solo per mettermi al riparo da qualche geologo dell’animo umano) e consegnare a queste pagine digitali l’emozione violenta (e sincera) che mi suscita il vespaio turistico di cui il belpaese è l’involontaria e finora supina vittima.

I ricordi – quelli con tanto di documenti a suffragio – li riservo alla carta stampata, perché è lì che si può dire “l’ho messo nero su bianco”, con buona pace del cittadinoonline che ha l’ambizione (e l’abiezione) di informare … Ma questa è un’altra storia.

Tornando alle vacanze stupidine d’antan, io c’ero; c’ero ma facevo già vacanze intelligenti (secondo quello che scriveva l’Espresso). A questo punto qualcuno ridacchia e dice tra sé e sé eccola qui la nostra che si parla addosso … Ehm, no, aspettate a ridere alle mie spalle, potrebbe rivelarsi paradossale…

Sì, perché io ero tra quelli – pochini ancora, ma ‘intelligenti’, secondo l’Espresso – che venivano in Toscana, anzi: si precipitavano. Qualche volta scegliendo un villaggetto da niente, con annessa pieve e paesaggio “incontaminato”, preferendolo a una sortita in una delle cittadelle europee che rigurgitano cultura e buona (almeno in apparenza) educazione.

Come mai questa preferenza? Intanto bisogna dire che non ero sola a fare questa scelta e che allora – con gli italiani indaffarati a diventare cosmopoliti – c’erano persone, qualche volta anche intere famiglie, che sentivano dentro di sé l’urgenza di conoscere l’Italia. Allora non si usava citare il Grand Tour (ora lo si cita scrivendolo senza la “d” finale, come se fosse una specialità gastronomica un po’ volgarotta).

Strano, no? conoscere l’Italia, questo paese rimasto un po’ medievale ma solo nella mentalità, perché la parte più fisica è disseminata di scritte Zimmer frei, già da qualche decennio e anche nell’Emilia di allora (in Toscana no, allora le Zimmer – frei o besetzt che fossero – in Toscana, grandi alberghi a parte, erano una rarità). Perché, come appresi a Montalcino dalla viva voce di un’ostessa, i turisti meno vengono meglio stiamo noi, affermazione sottolineata in tempi più recenti da qualche senese docg piuttosto imbufalito.

Ma torniamo a noi e alle vacanze intelligenti, che consistevano in un pellegrinaggio reverente, racchiuso tra due viaggi – andata e ritorno – talvolta faticosi, altrimenti trascorsi guidando in un traffico ancora plausibile, ma su un percorso troppo lungo per sopportare delusioni. E le delusioni, allora, erano pochine: la gente, ispida ma quasi sincera, ti accoglieva volentieri, raccontandoti aneddoti veraci e storie belline; la gente era contenta di ‘questi strulli’ che arrivavano giù dalle loro comode città, perché i nativi si svagavano un po’. Il visitatore era un po’ come andare al cinema; si raccontava con accento esotico e si lasciava incantare dai racconti dei nativi, che osservava con rispetto e venerazione, perché li viveva come i testimoni di una vita (‘stile di vita’ non si usava ancora dirlo, e ora per fortuna non si usa più dirlo!), di una vita più umana, meno di corsa a fare la spesa, di corsa in ufficio, di corsa alla riunione, di corsa al cinema, di corsa, di corsa!

Perché i nativi vivevano di quello che coltivavano nell’orto e nella vigna, del loro miele e del formaggio che magari veniva dalla montagna, e uno dei loro caratteri di fondo era la parsimonia; l’altro era la generosità, soprattutto dei loro racconti. Una vera narrazione di un paesaggio austero e poetico: qualcosa che ognuno di noi – proto-intelligenti – avrebbe voluto infilarsi dritto nel cuore e portarselo a casa, nella città crudele.

La narrazione era punteggiata di fette di pane con cibi esotici – salame vero, buristo, prosciutto d’oro in quanto rarità preziosa e assurdamente salato – e persino il pane, da solo, sapeva di verità: qualcosa di un po’ dimenticato. Il vino – pessimo e grossolano – era delizioso e ci parlava del coraggio di quelle genti abbarbicate alla terra, che manco conoscevano il significato della parola ‘paesaggio’ (del resto, il significato non lo sapevano nemmeno i ministri della Repubblica, se è per quello) né quanto fosse preziosa la tavola ‘del dugento’ (sparita) nella chiesuola in fondo al viale di cipressi.

Noi sì che sapevamo tutte queste cose: forse perché venivamo da lontano, lavoravamo una quantità mostruosa di ore, guadagnavamo molto (rispetto a salari incerti e rari e pensioni precoci) e poi, soprattutto!, volevamo conoscere il bel paese …

Ora, guardo le coppiette che non sono riuscite a parcheggiare la loro Mercedes Benz (mi ricorda il canto a cappella di Janis Joplin) accanto al tavolo del ristorante, si fermano un attimo per fare una foto e portare via un po’ di paesaggio (tanto non sanno cos’è), i tacchi dodici stridono sulle pietre (ma d’altronde se ci fosse l’asfalto sarebbe peggio); la gonna palpita, la sera cala tiepida: andiamo a cena…

Mi domando quanti di loro abbiano una vaga idea di quanto era forte e netta l’emozione che ci coglieva salendo la strada fino alla piazzetta e se sanno apprezzare quanto di buono e vero qui assaggiano e sperimentano. Di certo, per quanto quasi tutti iperconnessi, nessuno di loro può arrivare a vedere quello che allora c’era e alcuni riescono ancora a sbirciare, se hanno qualcosa dentro, se hanno strappato un ricordo a qualcuno che una come me ha (ancora) il privilegio di conoscere.

Poi leggi dei tuffi a Venezia dal Ponte dei Sospiri, vai a Roma e senti che l’incenso che aleggiava si è convertito in pizza; Firenze puzza di fritto …

Allora mi viene in mente che se non ci pensiamo noi (noi chi?) a curare la bella Italia – lingua e pizza, luoghi della fede e fontane, prode e costoni, boschi e uliveti, tabernacoli e chiostri – a curarla ferocemente, a ‘farla pagare’ e valere in termini di rispetto, riguardo, cura, attenzioni in punta di piedi, anche la bella Italia diventerà altro, qualcosa da strada, da kleenex buttato, da orinatoio d’emergenza, da pietre porta mozziconi, cartacce … bottiglie … lattine … blister …

La grande emozione diventa un ricordo. Avanti un altro.

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