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La CE non impone i formaggi fatti con il latte in polvere

Dice solo che chi vuole usarli deve poterlo fare anche il Italia

di Fabrizio Pinzuti

AMIATA. Qualche tempo fa la Commissione europea ha inviato una lettera all’Italia per chiedere la fine del divieto di utilizzo del latte in polvere per la fabbricazione di prodotti lattiero-caseari, un divieto previsto da una legge nazionale del 1974. Si è visto nella richiesta un ulteriore attacco alle produzioni di eccellenza italiane, dopo quelli del cioccolato in cui la parte grassa può essere costituita da oli vegetali anziché da burro di cacao o del vino senza uva. Senza l’utilizzo del latte fresco, si è detto, è a rischio la qualità di numerose specialità tipicamente italiane, caseari e latticini, dalla mozzarella campana al pecorino toscano o sardo, dal parmigiano reggiano al grana padano o trentino, dalla ricotta della Sila al raviggiolo umbro, dalla caciotta ciociaro-romana alla provola dei Nebrodi, dalla scamorza abruzzese al caciocavallo siciliano, dal Montasio all’Asiago. E la lista dei formaggi italiani di qualità – molti dei quali con tanto di doc, dop, o docg – potrebbe continuare, visto che non c’è regione che non abbia uno o più formaggi prodotto o derivati dal latte fresco (vedi tabella allegata).

Il fatto che in tutta Europa venga utilizzato abitualmente latte in polvere e latte concentrato non rende ancora più importante mantenere ferme le caratteristiche organolettiche dei formaggi italiani? Non potevano mancare le solite bordate contro i poteri forti che vorrebbero imporre all’Italia un metodo di produzione più economico che abbasserebbe la qualità dei formaggi italiani. La decisione della Commissione di mettere in mora il nostro Paese non è andata giù ai produttori di latte: secondo il presidente della Coldiretti Roberto Moncalvo «siamo di fronte all’ultimo diktat di una Europa che tentenna su emergenze storiche come l’emigrazione, ma che è pronta ad assecondare le lobby che vogliono costringerci ad abbassare gli standard qualitativi dei nostri prodotti alimentari difesi da generazioni di produttori». Alla Camera è stato approvato un ordine del giorno presentato dal deputato Mauro Pili, con cui si respinge la diffida europea. E’ stata messa in campo una grande mobilitazione con migliaia di firme raccolte in pochi giorni e si è gridato vittoria contro il tentativo dell’Europa di forzare le norme per favorire contraffazioni e speculazioni, contro una deregulation senza precedenti per un settore che si sta rilanciando proprio grazie alla sua tipicità e qualità. Ma sono veramente tutti impazziti a Bruxelles? È proprio vero che l’introduzione del latte in polvere per eliminare quella che l’Europa considera come una restrizione alla libera circolazione delle merci persegue l’obiettivo di favorire speculazioni e inganni da parte delle grandi multinazionali dei prodotti lattiero caseari o mira ad uniformare e globalizzare il mercato del settore? C’è veramente un danno d’immagine per il Made in Italy che, sempre secondo certi produttori, subirà un adeguamento “al ribasso” con lo standard europeo?

Se si analizza come si è arrivati a questa situazione si vede che l’iter della Commissione era iniziato a fine novembre 2013 con una richiesta di informazioni al nostro Paese alla quale l’Italia ha risposto a febbraio 2014. Ovviamente si tratta di adeguare le norme italiane a quelle europee e nessuno obbligherà i produttori italiani a usare il latte in polvere; se lo faranno sarà perché avranno trovato una loro convenienza (leggasi: guadagno) nel farlo e non perché “è l’Europa che ce lo chiede” o, tanto meno, ce lo impone. In pratica l’UE ha chiesto solamente all’Italia di eliminare la norma del 74 che prevedeva solo l’utilizzo del latte fresco, che può continuare ad essere utilizzato, da solo o con il latte in polvere. In altre parole non si vieta di utilizzare il latte fresco ma solo di dare la possibilità di utilizzare anche quello in polvere. La norma non è restrittiva, è ampliativa. Si viene tra l’altro a conoscenza che il 17 gennaio 2013, prima della domanda della Commissione, l’europarlamentare Oreste Rossi – allora della Lega Nord, già presidente del Consiglio regionale del Piemonte sotto la guida di Roberto Cota e ora passato a Forza Italia – in una interrogazione parlamentare a risposta scritta aveva sollecitato l’intervento della Commissione Europea proprio sul divieto di utilizzo del latte in polvere, sollevando la questione della  legittimità della normativa italiana rispetto al diritto comunitario. Più in dettaglio, osservava l’eurodeputato, il divieto di detenzione, commercializzazione e utilizzo di  latte in polvere imposto in Italia dalla legge 11 aprile 1974 n. 138  crea un ingente danno economico e competitivo alle aziende che producono yogurt essendo un ostacolo all’ottimizzazione dei costi logistici e ad una maggiore efficienza del processo produttivo, in cui “il latte concentrato è un ingrediente essenziale”, essendo le aziende “obbligate a trasportare una quantità di latte maggiore di quella di cui avrebbero bisogno perché, a causa della citata legge, non possono operare il processo di concentrazione all’origine e poi trasportare il prodotto negli stabilimenti. Inoltre, in base ai principi di libera circolazione nel mercato interno, si viene a creare una situazione di disparità rispetto ad altri paesi europei, come ad esempio Belgio e Francia, che possono utilizzare latte concentrato per la fabbricazione di prodotti lattiero caseari.

Può la Commissione far sapere se ritiene che la permanenza in vigore in Italia della legge 11 aprile 1974 n. 138 e il recepimento della direttiva 2007/61/CE siano in linea con il diritto dell’Unione europea?” Pur non escludendo che i richiami dell’UE possano recar vantaggio a qualcuno, anche dei produttori italiani, può la Commissione essere accusata di voler affossare una delle eccellenze della produzione italiana quando si è mossa per garantire i principi di libera circolazione delle merci, peraltro dietro sollecitazione di un eurodeputato italiano? E a quest’ultimo, spinto da motivazioni che sembrano valide, si può rimproverare di essersi dato da solo, e aver dato ad altri, la zappa nei piedi perché coinvolto in uno dei tanti casi di “schizofrenia normativa”? Forse sarebbe opportuno di non gridare sempre al complotto, vestendo le comode vesti dell’euroscetticismo, e di rendersi conto che togliere un divieto non è introdurre un obbligo.

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