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Salvare e piantare gli alberi per salvare l’aria, l’acqua, la bellezza (e i soldi)

di Mauro Aurigi

SIENA. Quando nel 1933 Franklin Delano Roosevelt si insediò quale 32° presidente degli SUA, ereditò dalle precedenti amministrazioni una situazione tragica provocata dalla tremenda crisi economica, scoppiata in Nord America nel 1929 e diventata globale, quale effetto non solo della prima guerra mondiale, ma anche e soprattutto come logica conseguenza del credo quasi religioso del capitalismo selvaggio e senza regole che dalla fine dell’800 dominava la cultura nord-americana.

La disoccupazione era salita al 20% (nella ex patria dell’abbondanza si moriva anche di fame oltre che di suicidio), gran parte delle industrie e delle banche erano fallite e si calcola che il PIL nel 1933 fosse crollato di un terzo (-33%) rispetto al 1929.  Roosevelt affrontò la situazione andando coraggiosamente controcorrente: intervenne con il famoso piano socio-economico chiamato New Deal (nuovo accordo) applicando, prima ancora che fossero di pubblico dominio, le teorie dell’economista britannico John Maynard Keynes a proposito dell’intervento pubblico nell’economia e nell’assistenza sociale. I liberisti fondamentalisti, ossia la corrente di pensiero ancora statisticamente dominante, tacciarono Roosevelt addirittura di fascismo e di comunismo (sic). Ma alla fine il successo fu tale che Roosevelt, unico nella storia del suo paese, si candidò alla presidenza per ben quattro volte consecutive, vincendo sempre: gli SUA nel corso di alcuni anni tornarono ad essere la massima potenza economica del pianeta fino al punto, nel 1941, di entrare in guerra contro le forze dell’Asse nazi-fascista (Germania, Giappone e Italia) e portare gli Alleati alla vittoria finale.

Tre miliardi di alberi piantati in meno di 10 anni negli SUA

Ho fatto questa premessa perché tra i provvedimenti del New Deal, tesi ad aumentare l’occupazione mediante provvidenziali opere pubbliche, ci fu la costituzione dei Civilian Conservation Corps per ripristinare e conservare l’ambiente: furono assunti oltre 3 milioni di disoccupati per fare rinascere i parchi nazionali e piantare tra il 1933 e il 1942 più di tre miliardi di alberi.  Certo non fu questo l’intervento più importante e neanche il più decisivo di tutto il New Deal, ma il citarlo ci consente di fare un parallelo tra la crisi degli anni ’30 e quella attuale – sempre originata negli SUA nel 2008 – che ci affligge da 11 anni. Ecco, in questa seconda interminabile crisi anche in Italia si investono soldi pubblici, ma non per aumentare o migliorare la copertura arborea, bensì per danneggiarla irrimediabilmente con potature o capitozzature devastanti o, addirittura, per abbatterla. Mentre in tutto il mondo le città, perfino in Cina, investono per la “forestazione” degli spazi pubblici urbani (in dieci anni New York ha piantato un milione di alberi), in Italia si assiste al fenomeno opposto: a Roma non si trovano i soldi per  coprire le buche ma si trovano per tagliare gli alberi a gogò, e anche nel nostro territorio (e la lista sarebbe lunga) i sindaci si danno da fare: via i 70 grandi tigli del Viale Corsica a Firenze, via i 35 monumentali cedri del Libano nella storica Piazza Mazzini a Poggibonsi (a parte il fatto che vi nidificavano ben 14 diverse specie di uccelli, si calcola che la temperatura estiva ambientale in quella piazza salirà addirittura due o tre gradi: il tutto non potrà non provocare una riduzione dei valori immobiliari della Piazza e dintorni).

Come spendere per fare danni a monte per provocarne di più gravi a valle

Come se non bastasse, in questo frangente, all’improvviso, particolarmente attivi sono diventati i Consorzi di bonifica che con i denari dei contribuenti stanno azzerando la vegetazione che da millenni difendeva dall’erosione le ripe dei corsi d’acqua, e difendeva l’acqua stessa, anche quella infiltrata nel suolo, dal riscaldamento e dall’evaporazione. Ora quei corsi d’acqua, oscenamente esposti ad ogni offesa, hanno il deprimente aspetto di fogne a cielo aperto.

Lo fanno, dicono, per velocizzare lo scorrimento dell’acqua, assolutamente ignari che così le acque di tutto il bacino imbrifero, non più frenate dalla vegetazione riparia e soprattutto ora con l’inasprimento delle bombe d’acqua, arriveranno velocissime e tutte insieme a valle, dove si dovranno investire altri soldi del contribuente (di quello stesso contribuente che ha già pagato per l’ “operosità” dei Consorzi di bonifica) per i danni provocati a valle dal disboscamento dei corsi d’acqua fatto a monte.

Ciò è tanto più grave, rispetto al caso americano degli anni ‘30, quanto più oggi abbiamo conoscenze e esigenze che all’epoca non erano neanche lontanamente immaginabili (il lento ma tenace incremento del riscaldamento globale, l’inquinamento atmosferico e delle falde acquifere, la fragilità dei suoli ecc.), ma che a lungo andare, se non riusciamo a intervenire, potrebbero costare la vita a miliardi di persone, visto che gran parte dei terreni del pianeta adibiti all’agricoltura potrebbero finire sommersi a causa dello scioglimento, già in corso, dei ghiacciai e delle calotte polari.

Quanto ci vogliono bene gli alberi!

Tante e diverse sono le virtuose e affettuose qualità delle piante. Prima di tutto c’è la capacità di immagazzinare la CO2 (ritenuta la massima responsabile del riscaldamento del pianeta e delle conseguenti e disastrose tempeste atmosferiche) restituendo ossigeno; poi c’è la riduzione della temperatura ambientale estiva nei centri abitati e nel resto del territorio, anche di alcuni gradi rispetto alle zone non alberate (risparmio di energia per il condizionamento estivo che ancora è soprattutto prodotta da centrali atomiche o alimentate da materiale fossile); l’apparato fogliare è in grado di assorbire le nano particelle e le polveri sottili che ormai inquinano non solo le zone industriali; gli alberi moderano i venti e riducono anche l’impatto col suolo delle acque atmosferiche, mentre le radici preservano dagli smottamenti e l’intero apparato contribuisce a mantenere umidità che altrimenti evaporerebbe. E ciò senza contare il contributo all’estetica dell’ambiente e del paesaggio, cosa da non sottovalutare in un’epoca in cui il turismo è diventato la più importante attività umana del pianeta per fatturato e numero di addetti, avendo da anni superato la meccanica e il tessile.                                                                                             

 Gli Americani chiamano il nostro Paese col termine inglese Italy, per cui mi sento autorizzato ad usare l’italiano per chiamare il loro: Stati Uniti d’America (SUA).

2 Alvaro Belardinelli: Libero Pensiero, n.86 del dicembre 2018. Da rilevare la contraddizione tra il comportamento di Roosevelt, che la miseria la combatteva con successo anche piantando alberi e foreste, e quello oggi in atto in Sud America dove la miseria la combattono, senza riuscirci (anzi), abbattendo gli uni e le altre.

3 Ciclone in Mozambico: quasi 2 milioni di persone che hanno bisogno di assistenza urgente, 715.000 ettari di coltivazioni spazzati via, 112.000 case distrutte o alluvionate, 598 decessi. E poi, come conseguenza, l’epidemia di colera che conta già 1.400 casi confermati in tutto il paese (Bollettino di Medici senza frontiere del 12.4.2019)

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